in costruzione
All’interno del quartiere Romanina in un campo di papaveri si staglia un piccolo bosco circolare percorso da un sentiero a spirale che conduce al centro. Sono 27 querce dedicate ognuno ad un magistrato caduto nell’adempimento del proprio dovere a formare il Giardino dei Servi di Giustizia.
Dedicare un albero, un bosco a questi uomini che anteposero il bene comune alla loro salvezza, ha un che di sacrale e ci riporta indietro nel tempo quando a Roma I boschi consacrati a una divinità si dicevano luci ed erano protetti da severe leggi che comminavano persino la pena capitale a chi osasse deturparli. Su una piccola altura alla Caffarella, di fronte alla chiesa di S. Urbano, si conservano ancora tre lecci, memoria del sacro bosco nei pressi della grotta della Ninfa Egeria, divinità connessa con le acque sorgive e il parto, che secondo la leggenda si incontrava qui con il re Numa Pompilio per dispensargli le sue grazie e i suoi consigli.
Vista la natura silvestre del suolo romano, non deve stupire se una delle prime divinità venerate dagli abitanti dei sette colli fu proprio Fauno, che si credeva elargisse la sue profezie grazie a una misteriosa voce udibile solo nel silenzio dei boschi. In grande onore era tenuta anche la Bona Dea, considerata la sposa di Fauno.Il protettore degli alberi e delle macchie, soprattutto di pini e di cipressi, era Silvano, chiamato anche Dendrophorus, il portatore di albero. Famoso era il Bosco degli Arvali, i sacerdoti della Dea Dia, una divinità arcaica protettrice della terra e delle messi.
Il terreno su cui sorse Roma era molto boscoso e i sette colli erano distinti da diverse specie d’alberi, che talvolta diedero loro il nome. Il Celio veniva chiamato Querquetulanus dalla sua foresta di querce; il monte Oppio veniva detto Fagutalis dai suoi faggi e il Viminale era il colle delle canne (vimina). Gli allori dell’Aventino furono ricordati fino alla fine dell’Impero nelle strade dette Lauretum Maius e Lauretum Minus.La valle fra l’Aventino e il Palatino sembra derivasse il suo appellativo di Murtia dal mirtillo che prosperava attorno al tabernacolo di Venere Murtea. La parte meridionale di Trastevere era detta campo Codetano dal suo equisetum arvense (codeta) o coda cavallina, una pianta erbacea perenne dalle spiccate proprietà medicinali. Man mano che la città cresceva, le foreste andavano sparendo, ma il loro ricordo era conservato da un gruppo di alberi, tenuti in grande venerazione, cui venivano offerti sacrifici.
Platone nel Timeo non esita a dire che la filosofia nasce dalla comprensione del linguaggio vivente della natura, e che in questo senso può essere considerata un grande dono degli dèi. In questo contesto, si può ben capire l'importanza data all'interpretazione dei fenomeni vegetali, considerati pensieri e parole degli dèi, e perchè lo studio simbolico della natura fosse considerato una via verso il Divino, orientamento ancora ben presente nel Medio Evo cristiano (basti pensare alla metafora della natura quale libro di Dio), ma dimenticato dai cattolici di oggi.
Per restare al simbolismo della quercia, occorre ricordare che la continuità tra l'albero e gli uomini era qualcosa di ben radicato nell'anima degli antichi: il sentimento dei Greci a volte esprimeva tale concezione, immaginando le querce quali primi alberi terrestri e madri degli uomini dalle quali originariamente essi sarebbero derivati.
Contemporaneamente, la quercia figurava anche quale albero di Zeus, come si è già visto, e a Dodona il primo tempio consisteva proprio in una foresta di querce, a testimoniare una volta di più la continuità con il Divino e la sacralità del bosco.
La diffusione di tale atteggiamento spirituale, l'universalità del simbolismo in questione, attestano che non si tratta di strane fantasie elleniche: per quanto riguarda il mondo europeo antico, basterà ricordare l'importanza, d'altronde ben nota, della quercia (e del mondo vegetale in genere) presso i Celti, i Germani, i Balti, gli Slavi. Presso questi popoli, spesso le decisioni più importanti venivano prese all'ombra della quercia, in quanto albero della Saggezza e della Giustizia, attributi che compaiono anche tra i Greci, in riferimento allo stesso albero e a Zeus. Secondo quanto scrive Strabone (Geografia, XII, 5, 1), il consiglio dei Galati "era composto da trecento uomini che si riunivano in assemblea nel luogo chiamato D r y n é m e t o s", termine derivante da drys (quercia) e da nemeton (santuario).
Il dio supremo degli antichi Slavi, Perun, era venerato tramite il culto del suo albero, la quercia, e lo stesso dicasi per quanto riguarda gli antichi Balti e il dio Perkùnas (da perqus, quercia). Come si può notare in base a queste ed altre corrispondenze, non può certo essere casuale e arbitrario il ruolo della quercia quale albero cosmico, mediatore tra umano e divino, tra terrestre e celeste: a tale funzione ben si addice la descrizione di Virgilio, quando parla della "quercia che tanto alto va verso l'aperto Cielo, quanto ha di radici verso il Tartaro" (Georgiche, libro II, 291-292).
Si potrebbero menzionare poi innumerevoli esempi concernenti la sopravvivenza dei culti sopra citati ancora nel Medio Evo inoltrato, nonostante gli insistenti sforzi esercitati dalla cristianizzazione forzata nel tentativo di estirpare i culti paganeggianti: si narra che quando Gerolamo da Praga, in un periodo che ormai possiamo considerare di transizione tra Medio Evo ed età moderna, impose agli abitanti il disboscamento, essi si opposero, perchè là vi era una quercia antichissima, venerata quale sede della divinità.Non si rifletterà mai abbastanza sulla forza delle percezioni simboliche presso i popoli antichi: anche quando esse hanno perduto l'originaria lucidità e pregnanza metafisica e sono state aggredite dai mutamenti di civiltà, dovuti in parte alla cristianizzazione, in parte al materialismo tecnico-scientifico, hanno continuato a resistere a lungo nelle profondità dell'anima popolare, sopravvivendo a distanza di secoli e millenni, sia pure in forme spesso solo superstiziose.
Il papavero da fiore dell’oblio a ricordo dei caduti
Il papavero comune o rosolaccio, papaver rhoeas, è una pianta erbacea annuale, la specie, è largamente diffusa in Italia, cresce normalmente in campi e sui bordi di strade e ferrovie ed è considerata una pianta infestante ed è lontano parente del papavero da oppio, da cui si estrae la morfina. Anticamente nel mondo greco romano il papavero era il simbolo del sonno che conduce all’oblio. In questo senso il sonno legato alla morte. Secondo gli antichi greci il papavero era il simbolo dell’oblio e del sonno, nella mitologia greca Morfeo, il dio dei sogni, era rappresentato con un mazzo di papaveri fra le mani. Sempre secondo la mitologia greca Dementra, la madre terra, dea del grano e dell’agricoltura, ritrovò la serenità persa a causa della morte della figlia Persefone (moglie di Ade dio degli inferi) bevendo infusi fatti con fiori di papavero. Per i greci infatti il papavero rappresentava anche il fiore simbolo della consolazione. Gli antichi romani invece associarono il papavero alla dea Cerere, equivalente della dea greca Demetra, raffigurandola con ghirlande di papaveri, per la presenza costante di papaveri in tutti i campi di grano. Durante il medioevo il papavero fu invece associato, per via del suo colore, al sacrificio di Cristo e alla sua morte, per questa ragione si trova spesso raffigurato in affreschi di chiese risalenti all’epoca medievale. Secondo una leggenda, l’imperatore mongolo Gengis Khan teneva in tasca semi di papavero che spargeva sui campi di battaglia per onorare i caduti, anche quelli avversari. Sulla scia della tradizione medievale, che associa il papavero al sacrificio, nel Regno Unito, durante la prima guerra mondiale, per celebrare gli uomini morti per la patria si usavano ghirlande composta da papaveri. Osservando le foto dei membri della Famiglia Reale inglese, vi è mai capitato di notare una spilla a forma di papavero rosso appuntata sui risvolti delle giacche o sugli abiti! Si tratta del Remembrance Poppy, papavero del ricordo, che viene utilizzato, oltre che nel Regno Unito, anche in Canada, Stati Uniti e paesi del Commonwealth, simbolo del ricordo dei caduti in battaglia. Piccoli papaveri artificiali vengono generalmente indossati nel Remembrance Day l’11 novembre e nelle settimane che lo precedono, ma sono anche impiegati per comporre ghirlande celebrative. Ma qual è l’origine di questa particolare usanza? Tutto deriva da una poesia scritta nel 1915 da da John McCrae, tenente colonnello medico e poeta canadese, per ricordare un amico ucciso in battaglia, la poesia “In Flanders Fields” è tuttora conosciutissima nei paesi di cultura anglosassone. Proprio nelle prime righe della poesia, si fa riferimento ai papaveri, i primi fiori a sbocciare nei campi di battaglia. Sono state però due donne, sempre loro che hanno una marcia in più, l’americana Moina Bell Michael e la francese Anna Guerin, a trasformare questo fiore in un simbolo nazionale denso di significato e a tutt’oggi molto diffuso. Ispirandosi alla poesia di McCrae, con la vendita di papaveri artificiali, raccolsero fondi a favore dei veterani delle guerre e riuscirono a sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema molto doloroso, convincendo anche organizzazioni come la National American Legion e la Royal British Legion ad adottare il papavero come simbolo. In Gran Bretagna e più precisamente a Richmond nel Surrey esiste poi dal 1922 la Poppy Factory, una ditta che produce questi papaveri artificiali e che, pensate un po’, ogni anno realizza ben 36milioni di fiori e 80.000 corone e che fornisce i papaveri indossati da tutta la Famiglia Reale. La Poppy Factory iniziò la sua attività dando lavoro ai veterani di guerra e ancora oggi i suoi dipendenti sono uomini e donne che, durante il loro lavoro al servizio della nazione, hanno subito danni fisici disabilitanti. Ma non è finita qui ogni anno nel Regno Unito un papavero-gioiello, creato dai più prestigiosi orafi d’oltremanica, viene messo all’asta durante il Poppy Ball ed il ricavato viene destinato alla Royal British Legion. Associare il papavero al ricordo di chi ha perso la vita in guerra non è però solo storia recente. Secondo una leggenda, Gengis Khan, l’imperatore mongolo teneva in tasca semi di papavero che spargeva sui campi di battaglia per onorare i caduti, anche quelli avversari. E, tornando ai giorni nostri, non posso dimenticare Fabrizio De Andrè e la sua ‘Canzone di Piero’: “Dormi sepolto in un campo di grano/non è la rosa non è il tulipano/che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ma sono mille papaveri rossi…” Come si vede il semplice papavero che troviamo sui cigli della strada o che vediamo nei campi ha una sua bella storia e per finire, il termine “papavero” è utilizzato come sinonimo di persone potente, tale significato è dovuto alla leggenda secondo la quale il Re di Roma Tarquinio il Superbo volendo insegnare al figlio il modo più rapido per conquistare la città di Gabi, andò in giardino e con un colpo di bastone recise le teste di tutti i papaveri, volendo, con quel gesto, far capire al figlio che bisognava eliminare tutti i personaggi più potenti della città avversa.
IL GIARDINO DEI
GIUSTI
a Villa Doria Pamphili
“Chi salva una vita salva il mondo intero”, è scritto nella Bibbia. Del resto, anche il Corano dice: “Chi uccide un solo uomo innocente, uccide tutta l’umanità”. Il gentile che salva la vita a un ebreo, a rischio della sua, è detto Giusto tra le nazioni e gli è dedicato un albero nella Foresta dei Giusti, a Gerusalemme. Il primo Giardino dei Giusti, è nato a Gerusalemme nel 1962, per l’azione di Moshe Bejski, salvato da Oskar Schindler. Il giardino si trova nel museo di Yad Vashem e ricorda i Giusti non ebrei che hanno salvato la vita a ebrei durante la Shoah. La commemorazione fino agli anni novanta era effettuata piantando alberi in onore dei Giusti tra le nazioni. Oggi, non essendoci più spazio per le piantumazioni, è stato costruito nel giardino il Muro d'Onore su cui ne vengono scolpiti i nomi. Il presidente di Gariwo la foresta dei Giusti, lo scrittore e giornalista Gabriele Nissim, ha proposto l'istituzione di Giardini in tutto il mondo. La scelta di ubicare il Giardino dei Giusti di Roma all’interno del parco di Villa Doria Pamphili deriva dalla vicinanza al quartiere di Monteverde, uno dei quartieri più antichi e verdi della città, ove si è creata una seconda comunità ebraica romana, quasi più grande di quella del Portico di Ottavia. Roma fu una delle più antiche sedi occidentali della comunità ebraica. L’Urbe cosmopolita e aperta a molteplici traffici economici e interessi materiali, offriva ai forestieri moltissimi vantaggi e garanzia di libertà religiosa. Villa Doria Pamphilj come molti altri parchi della Capitale trae origine dalla tenuta di campagna di una famiglia nobile romana. Si estende su una superficie complessiva di 184 ettari ed è considerata una delle più importanti ville romane, perché conserva ancora dopo secoli la sistemazione seicentesca e le principali caratteristiche del 700 e dell'800.Il complesso consta di tre parti: "pars urbana", comprensiva del Palazzo e dei giardini circostanti; "pars fructuaria", composta dal pineto; "pars rustica", che viene considerata la parte della vera e propria tenuta agricola.
Tra dolci declivi di villa Doria Pamphili, in una parte pianeggiante racchiusa da un lato da un piccolo corso d’acqua e dall’altro da un viottolo, si stende un campo di grano fino a mischiarsi a due filari d’ulivi. Gli ulivi cingono una siepe di melograni. Sono a corona di un piccolo rilevato in terra che invita alla sosta. Il sentiero che si inoltra tra le spighe del grano, e taglia la curva disegnata dal filare degli ulivi completa il geoglifo che allude alla forma di un calice di un fiore. Come quella dei fiori del croco, di cui l’area del giardino sarà disseminata e che annunciano la primavera apparendo molto presto, generalmente a febbraio marzo. Gli ulivi raccolgono in un abbraccio un boschetto di cipressi. I cipressi sono racchiusi in una incastellatura di alti tutori che sembrano donare all’impianto dei cipressi una dimensione solenne. L’impianto ha le misure del tempio di Salomone che sono descritte in 1Re 6,2: "60 cubiti di lunghezza, 20 di larghezza, 30 cubiti di altezza", cioè circa 30x10x15 metri. Ogni anno a primavera saranno messi a dimora nel Giardino dei Giusti alcuni ulivi, ognuno a ricordo di quegli uomini che scelsero il bene.
L'immaginario sul giardino presente in ogni cultura, nei secoli si è arricchito di significati sempre nuovi; metafore del cosmo e del mondo, della vita e dell'io; riflesso della perfezione divina o sede della filosofia; luogo d'amore e di pericolo mortale, dove la bellezza nasconde l'inganno; rifugio protetto degli affanni della vita o sede di progetti e di opere. Nella mitologia greca, Croco era il nome di un giovane ricordato per il suo amore infelice con una ninfa. Croco era innamorato di una ninfa chiamata Smilace, ma non era corrisposto, gli dei allora tramutarono Croco in una pianta e in seguito anche la ninfa. Secondo altre fonti i due morirono insieme amandosi. Il calice floreale rimanda alla coppa piena di una bevanda ed al brindisi, l’atto di bere alla salute di qualcuno. Il brindisi è diffuso in tutto il mondo; variano, ovviamente, le esclamazioni accompagnatorie usate. Prosit è una parola latina significa "sia utile, faccia bene, giovi", o anche "sia a favore", terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo latino prōsum, prodes, prōfui, prodesse ("giovare", "essere di vantaggio"). È utilizzata come esclamazione all'atto del brindisi. La parola è usata anche in campo liturgico al rientro in sagrestia, dopo la conclusione della Messa, dai ministranti verso il celebrante, il quale risponde con "Deo gratias vobis quoque". Nell'antica Grecia si usava declamare discorsi o versi poetici durante il brindisi e l'usanza richiedeva che le parole fossero improvvisate. Dal Seicento in poi, si diffuse il cosiddetto brindisi poetico e numerosi furono gli autori che se ne occuparono, da Gabriello Chiabrera a Giovanni Mario Crescimbeni, per non parlare del Brindisi funebre carducciano. Il brindisi è probabilmente un vestigio religioso di antiche libagioni sacrificali in cui un liquido sacro veniva offerto agli dèi: sangue o vino in cambio di un desiderio, una preghiera riassunta con le parole 'lunga vita!' o 'alla salute'".
Il geoglifo del calice rimanda anche ad altra figura: quella di una Menorah
Dopo la "stella di Davide", la figura a sei punte, il più noto simbolo ebraico è la Menorah, il candelabro a sette braccia. “Farai un candelabro d’oro puro fatto tutto di un pezzo: il piedistallo e il fusto, e i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori formeranno un solo corpo con esso. Sei rami usciranno dai suoi lati, tre da una parte e tre dall’altra. Su ogni ramo vi saranno tre calici a figura di fiore di mandorlo con il suo bocciolo e un fiore…".La Menorah inizialmente era posta nel tabernacolo nel deserto del Sinai; più tardi nel Santuario di Gerusalemme. La sua descrizione nel libro dell’Esodo (25: 31-36) è formata quasi completamente da termini botanici: rami, calici, petali e coppe. Antiche fonti ebraiche, come il Talmùd babilonese, stabiliscono uno stretto rapporto tra la Menorah e una pianta specifica. In effetti vi è una pianta nativa di Erez Israel che ha una notevole somiglianza con la Menorah, anche se non è sempre a sette braccia. È un tipo di salvia, chiamata in ebraico Morià. Il gran sacerdote aveva l’ordine di tenere la Menorah nel Santuario piena di puro olio di oliva e di accenderla ogni giorno (Esodo 27:30). L’olio di oliva brucia con la fiamma più chiara e brillante di tutti gli altri olii vegetali. Ma non solo l’olio di oliva è speciale. Il fogliame dell’olivo stesso sembra illuminarsi quando il vento agita i suoi rami. Il lato inferiore di ogni foglia di olivo è di color argenteo e così l’intero albero acquista questi riflessi. Quando la brezza "porta" queste onde di luce da un olivo all’altro l’intera piantagione sembra illuminarsi. L’albero di olivo era stato un simbolo di luce già nella storia dell’arca di Noè quando la colomba tornò indietro con una foglia di olivo nel becco (Genesi 8:11). Un antico commento spiega che la foglia di olivo fu "una luce per il mondo". La luce è stata sempre associata con la pace, così come il buio lo è stato con la guerra e la distruzione.La Menorah e l’albero di olivo come simboli di pace sono presenti nella visione del profeta Zaccaria. Questi vide una Menorah con a lato due alberi di olivo che versavano il loro olio nelle sette lampade della Menorah. Nelle sette fiamme della Menorah. Nelle sette fiamme della Menorah sette parole che un angelo aiutò a leggere: "Lo bechail velo bekoach ki im beruchi: Non con l’esercito né con la forza, ma con il Mio spirito" (Zacc. 4:6).Dopo la distruzione del secondo Tempio il generale romano Tito portò via la Menorah a Roma come il simbolo supremo della sua conquista militare della Giudea e della distruzione del Tempio. Ma il popolo d’Israele portò l’immagine della Menorah ai quattro angoli della terra come un simbolo della sua fede nella futura conquista della forza da parte dello spirito. La visione di Zaccaria fu ricreata quando la Menorah, con un ramo di olivo da ogni lato, divenne l’emblema ufficiale dello Stato di Israele, un simbolo di pace e la fine della dispersione forzata.
Un’altra ragione di adottare l’ulivo nel Giardino dei Giusti a villa Doria Panphili è legata alla presenza nel blasone della famiglia della colomba che reca nel becco un rametto di ulivo. E la colomba era simbolo di Venere, dea dell’amore e madre di Enea, il mitico fondatore di Roma e protagonista degli affreschi nella Galleria Doria Pamphilj. In una medaglia dipinta a chiaroscuro nella Galleria è ritratto anche Enea, in un bosco, che cerca il ramo d’oro o d’ulivo, da portare in dono a Proserpina. Il ramo avrebbe consentito a Enea di entrare e uscire dagli inferi. Nella Bibbia la colomba, rilasciata da Noè, torna all'Arca con un ramoscello d'olivo in bocca ad annunciare la fine del diluvio, diventando simbolo della pacificazione di Dio con l'uomo. La colomba di Picasso simbolo di pace " è diventata simbolo mondiale dei movimenti di pace ed i pacifisti sono chiamati "colombe" e i guerrafondai "falchi". Il ramoscello d'ulivo è simbolo della rigenerazione perché, dopo la distruzione causata dal diluvio, la terra tornava a fiorire. Allo stesso tempo divenne anche simbolo di pace, perché attestava la fine del castigo e la riconciliazione di Dio con gli uomini. Nel Nuovo Testamento ci sono molti episodi legati all'ulivo. Gesù fu ricevuto calorosamente dalla folla che agitava foglie di palma e ramoscelli d'ulivo. Nell'Orto degli Ulivi passò le ultime ore prima della Passione. Nella festa cristiana delle Palme, celebrata una settimana prima della Pasqua, l’ulivo rappresentare Cristo stesso che, con il suo sacrificio, diventa strumento di riconciliazione e di pace per l’umanità. C'è un altro motivo per cui l'ulivo è una pianta sacra. Dal suo frutto, le olive, viene ricavato l'olio. L'olio d'oliva è il Crisma, usato nelle liturgie cristiane dal battesimo all'estrema unzione, dalla cresima alla consacrazione dei nuovi sacerdoti. Infine, il nome Cristo significa “unto”.
Il simbolo del melograno In ebraico, il melograno è un simbolo di produttività, ed anche dell’unità del popolo, poiché i grani sono stretti tra loro. La pianta richiede pochissima acqua e cresce su ogni tipo di terreno, quasi a costituire una specie di miracolo e di dono della natura in terre aride e brulle. Lo stesso frutto, con i suoi chicchi dolci e succulenti, sembra di per sé incarnare l’emblema della prosperità: non per niente divenne simbolo di ricchezza e fertilità. Il simbolo del melograno si collega a quello più generale dei frutti con molti semi; è un simbolo di fecondità e di discendenza numerosa: nell’antica Grecia è un attributo di Era e di Afrodite e, a Roma, l’acconciatura delle spose è fatta di rami di melograno. In India le donne bevono succo di melograno per combattere la sterilità. Inoltre, il melograno è nella tradizione ebraica simbolo di onestà e correttezza, dato che il suo frutto conterrebbe 613 semi, che come altrettante perle sono le 613 prescrizioni scritte nella Legge (Torah): 365 divieti e 248 obblighi, osservando i quali si ha un comportamento giusto. Il detto va preso in senso paradigmatico ovviamente, come ogni proverbio, poiché il numero dei semi della melagrana è variabile, e si aggira comunque intorno alle 600 unità.
Il Melograno simboleggia sia la vita che la morte. Portando il proprio importante contributo simbolico nel tentativo di evidenziare ancora una volta come i due opposti per eccellenza, la vita e la morte, siano collegati da un filo sottile. Se il melograno collega i due mondi, è il sacrificio il gesto che rende possibile questa unione; . la più nota è quella riguardante la. bella Persefone. Mentre stava giocando a raccogliere fiori, la terra si aprì sotto i suoi piedi quando raccolse un narciso e venne rapita da Ade, portata nell’oltretomba. Demetra adirata fece in modo che i frutti sulla terra non maturassero e calò così l’inverno perpetuo. Zeus preccupato inviò il suo messaggero da Ade per chiedergli di liberare la bella Dea. Lui ubbidì e disse a Persefone che poteva andare, ma gli offrì il seme del melograno. Lei mangiandolo accettò inconsapevolmente di passare sei mesi con la madre sulla terra e sei mesi con Ade, come sua sposa, negli inferi. In questa leggenda il frutto diventa legame tra regno dei vivi e regno dei morti, ed è proprio il suo chicco a costringere la bella Persefone a dover passare sei mesi all’anno con Ade. Ogni anno Persefone, così come la natura, sperimenta la morte. Sempre seguita dalla resurrezione. Non c’è da sorprendersi se il melograno è considerato anche il frutto della morte. Sia gli antichi egizi che i greci avevano l’abitudine di mettere nelle tombe rappresentazioni di questo frutto.
Il cipresso è comune in tutta la Palestina; ne sono stati trovati alcuni esemplari selvatici in Galaad, Edom e sulle pendici del Libano e secondo alcuni l’“albero resinoso” che fornì a Noè il legname per l’arca Ge 6:14.In Isaia 41:19 Geova promette di far crescere anche in zone desertiche alberi che normalmente crescono in luoghi fertili, e in una profezia concernente la futura esaltazione e prosperità di Sion è predetto che il cipresso, insieme al frassino e al ginepro, sarebbe stato usato per abbellire il luogo del santuario di Geova. — Isa 60:13. Il cipresso ha avuto fin dall'antichità un significato sacro, legato ai riti funebri ed alla morte. Il nome, infatti, deriva dalla triste leggenda del giovane Ciparisso, che per sbaglio uccise un cerbiatto che aveva allevato amorosamente. Per il dolore si tolse la vita e Apollo, commosso per la triste fine di Ciparisso, lo trasformò nell'albero che oggi tutti conosciamo, diventato da allora il simbolo del lutto e dell’accesso all’eternità. I greci non mancavano mai di piantare un cipresso in prossimità dei templi e lo sradicamento di questa pianta era considerato un atto di profanazione al dio al quale il tempio era dedicato. Nella tradizione cristiana è diventato simbolo dell’immortalità, come emblema della vita eterna dopo la morte, infatti lo si trova nei cimiteri. Per la sua verticalità assoluta, l’erigersi verso l’alto, il cipresso indica l’anima che si avvia verso il regno celeste. I celti avevano un segno zodiacale dedicato al cipresso, considerato simbolo di longevità: si pensava che i nati sotto questo segno potessero invecchiare più lentamente e senza sofferenze.
Pensando al dramma ecologico che investe ormai l'intero pianeta emerge una questione di vitale importanza: gli alberi, le foreste non sono solo ciò che stiamo distruggendo, sono altresì ciò da cui discendiamo. Il margine ombroso delle foreste non ha però definito solo i limiti della civiltà e delle istituzioni: ha influito in maniera determinante anche sull'immaginario. Nella memoria culturale dell'Occidente le foreste offrono asilo a fuorilegge, eroi, vagabondi, amanti, santi, perseguitati, reietti e agli smarriti. Tutti sono usciti a cercare riparo nelle foreste. Senza questi luoghi, che rappresentano il di fuori, non c'é un dentro in cui abitare. L'esterno costituisce l'interno. Alle piante gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto. E a ciascuna specie, e ad ogni albero, venivano attribuite caratteristiche particolari, perché in ciascuno di essi il mistero della natura e quello divino trovavano un equilibrio diverso.In questo futuro, minacciato dalla scomparsa della natura e dell'uomo, il Giardino dei Giusti, vuole porsi come preambolo per la propagazione, nel nostro cuore, di nuove foreste, all'ombra protettiva delle quali gli uomini possano trovare una pacifica convivenza, proprio come gli alberi in un bosco trovano armonia anche nella diversità delle specie.
ll Giardino dei Giusti di Roma è stato inaugurato il 6 marzo 2018 in villa Pamphili con ingresso in via della Nocetta 30. Ogni anno, in occasione della celebrazione della "Giornata europea in memoria dei Giusti " sono piantati 5 alberi in memoria delle personalità che saranno insignite del titolo di Giusto.Il 6 marzo 2018 in Villa Panphili è stato ufficialmente inaugurato il nuovo Giardino dei Giusti della Capitale, in una delle zone più suggestive di Villa Doria Pamphilj. In occasione della Giornata europea in memoria dei Giusti, istituita per il 6 marzo, sono stati messi a dimora i primi cinque alberi in onore delle personalità insignite del titolo di Giusto: Armin Wegner, Salvo D'Acquisto, Irena Sendler, Etty Hillesum e Mohamed Naceur (Hamadi) be Abdesslem. Nel Giardino dei Giusti di Roma, idea nata e proposta dalle associazioni onlus Gariwo e AdeiWizo, ogni anno verranno piantati cinque nuovi alberi in memoria delle personalità che verranno individuate. Ad indicare ogni anno i nominativi dei cinque Giusti dell’Umanità da insignire in Roma è il comitato scientifico ad hoc istituito dal Campidoglio, presieduto dal Sindaco Virginia Raggi e composto da Anna Foa, Riccardo Di Segni, Giovanni Maria Flick, Andrea Riccardi, Gianni Celestini e Massimiliano Atelli Alla cerimonia aveva partecipato anche Mohamed Naceur (Hamadi) ben Abdesslem, la guida tunisina che mise in salvo i turisti italiani durante l'attacco dell'Isis al Museo del Bardo a Tunisi il 18 marzo del 2015 Nel 2019 i giusti ai quali sono stati dedicati 5 nuove piante sono il giovane giornalista Antonio Megalizzi, ucciso nel corso di un attentato terroristico a Strasburgo, l'attivista pacifista ed ambientalista altoatesino Alexander Langer, l'antifascista tedesca Ursula Hirschmann, il dirigente di Solidarnòs Bronisaw Geremek e la missionaria danese Karen Jeppe che ha salvato centinaia di persone durante il genocidio degli Armeni.
Giardini del Vento
HORTUS INCONCLUSUS
L’istallazione è dedicata Roma attraverso la figura di Athanasius Kircher
Roma , luogo ideale per un gioco di citazioni senza fine, per effettuare uno scavo nei sedimenti che la morte ha deposto su se stessa da secoli. Roma dove crescono piccole piante nel mitreo interrato dieci metri sotto la basilica di San Clemente; Roma della porta alchemica del marchese di Palombara che non conduce più da nessuna parte ma, può essere attraversata solo da “Qui scit comburere acqua et lavare igne, facit de terra caelum et de caelo terram pretiosam"; Roma della chiesa del Sacro Cuore del Suffragio che custodisce il museo delle anime del Purgatorio, esposizione di documenti e testimonianze marchiati dalle mani ardenti di anime che proverebbero l'esistenza del Purgatorio e delle anime di defunti che vi soggiornano, in attesa di ascendere in Paradiso; Roma del Museo kircheriano, ospitato nel Collegio Romano.
Athanasius Kircher , erudito gesuita (Geisa, Fulda, 1602 - Roma 1680) ed eminente rappresentante dell'enciclopedismo seicentesco. I suoi eclettici interessi spaziarono dal campo degli studi linguistici alla geologia, dalla filologia all'ottica, al collezionismo di antichità; le sue ricche raccolte di reperti di arte classica, orientale e amerindiana costituirono il fondo museale noto come Museo kircheriano e ospitato nel Collegio Romano (1651). Tra le sue opere occorre segnalare Oedipus Aegyptiacus (1652), Mundus subterraneus (1665) e China illustrata (1667).
Professore(1629) di filosofia e matematica a Würzburg, dove diede lezioni anche di siriaco e di ebraico e compose la sua prima opera, Ars magnesia (1631), sul magnetismo; trasferitosi a Roma (1633), venne chiamato (1638) a insegnare matematica, fisica e lingue orientali al Collegio Romano. Si dedicò allo studio degli argomenti più disparati: dal magnetismo (Magnes, sive de Arte magnetica, 1641) all'ottica (Ars magna lucis et umbrae, 1646) alla geologia (particolarmente significativo il già citato Mundus subterraneus, storia della Terra in cui in una visione teleologica dà conto delle strutture fondamentali del globo e delle trasformazioni della crosta terrestre) alla matematica (Musurgia universalis, 1660; Organum mathematicum, 1668) e alla musica (Musurgia universalis sive ars magna consoni et dissoni, 2 voll., 1650); dalla filologia mista di motivi ermetici e simbolistici (come negli studî sulla lingua egizia: Prodromus Coptus, 1636, Lingua aegyptiaca restituta, 1643, e soprattutto famoso il summenzionato Oedipus Aegyptiacus) all'esame di civiltà esotiche (particolarmente importante e fortunata la già segnalata China illustrata). Famosi sono rimasti i suoi tentativi di interpretare i geroglifici egiziani presenti in alcuni obelischi (Obeliscus Pamphilius, 1650; Obeliscus Alexandrinus, 1666). Sotto l'influenza dell'arte combinatoria lulliana Kircher si misurò anche nel progetto di definire un metodo di conoscenza universale basato su un "nuovo alfabeto" (Ars magna Sciendi, 1669). Raccoglitore di antichità classiche, cristiane, orientali e della civiltà dell'America Meridionale, costituì nel Collegio Romano (1651) un museo, detto dopo la sua morte Kircheriano, oggi diviso principalmente tra il Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini e il museo delle Terme (l'attuale Museo nazionale romano). Nel museo, oltre agli oggetti d'arte, ai reperti archeologici, etnografici e naturalistici erano conservate anche le famose macchine ottiche e catottriche fatte costruire dallo stesso Kircher. per scopi di diletto, meraviglia e studio.
Kircher pensava si potessero progettare giardini in cui alberi e piante, visti da un punto determinato, prendessero la forma di animali e sembrassero dipinti in un quadro; anche le città avrebbero potuto essere costruite in modo da apparire figure animate. Perfino le montagne e le rocce potevano essere trasformate in creature viventi. I giardini con i loro alberi ed i loro fiori disposti secondo disegni regolari , dove la natura veniva imbrigliata in una rete di prospettive calcolate con cura per offrire naturalmente a queste fantasie e a questi artifici un buon campo di applicazione. E del resto, lo stesso Descartes ne aveva già parlato in un suo scritto giovanile : “ Si possono fare in un giardino delle ombre che riproducono figure diverse, come alberi ed altre cose. Item, potare le siepi in modo che da particolari prospettive esse assumano la forma di particolari figure”.
Al continuo ed ansioso riprodursi di fughe della mente , dei sensi e delle passioni , il seicento barocco come la contemporaneità dà una risposta : l’artificio.Ricondotto agli stati di coscienza, l’artificio non è altro che una maschera.
La visione moderna come quella barocca opera sempre in un hortus inconclusus, si serve dell’artifizio (maschera) per costruire uno status elusivo, dispersivo, delle tensioni che lo pervadono. L’artificio, perciò costruisce degli “Hortus conclusi” fittizzi, illusori e provvisori, in realtà tanti “hortus inconclusi”.
Le verità metafisiche sono le verità delle maschere ( O. Wilde).Sono anche le verità delle favole. Le illusioni e le fantasie che nascono intorno alle forme corrispondono ad una realtà, e generano a loro volta forme in cui immagini e leggende vengono proiettate e si materializzano nella vita
IL CAMPOVOLO,
Il giardino del vento
Partecipazione a Maggio in Fiore a Cervia
L’istallazione è dedicata a Roma attraverso il Parco Archeologico di Centocelle.
L’istallazione approntata per la manifestazione di Cervia alludeva alle aree di vegetazione spontanea presenti anche ora nel parco archeologico di Centocelle e che anche in un futuro prossimo di sistemazione del parco potrebbero essere conservate. “Giardini del Vento”, ispirati all'idea di Terzo Paesaggio di Gilles Clément , e caratterizzati da pratiche consentite di non organizzazione. Le piante viaggiano. Soprattutto le erbe. Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Niente è possibile contro il vento. Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess, le polveri fertili. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili. Il caso organizza i dettagli, per la diffusione delle specie ricorre a ogni possibile vettore.
DESCRIZIONE DELL’ISTALLAZIONE
Alberi che paiono strallati costituiscono di fatto una grande arpa eolia. Si tratta di uno strumento musicale nel quale le corde non vengono fatte vibrare meccanicamente dall'uomo ma dal vento producendo melodie sempre diverse , sempre casuali. Di fianco cavi fissati alle alberature sorreggono giardini di Buddleja Davidii Reti tese fra gli alberi cercheranno di catturare i semi delle angiosperme anemocore, che hanno frutti o semi leggeri, muniti di ali o altre appendici che facilitino il volo, come il pappo degli acheni delle composite o le brattee dei tigli. Dai rami palle di sfagno da cui fuoriescono esemplari di sanseverie sembrano rimandare alle architetture dei nidi dell’uccello sarto o dell’ uccello tessitori (Ploceidae Sundevall, 1836) oppure ricordare meravigliose creature quali la bernocla L’aiuola presenta a terra piante di cipresso piegate dal vento o la forza tellurica di altri di piante vagabonde, infestanti, come la panace di Mantegazzi, la porracchia sudamericana, il fico d’India, il papavero sonnifero, il poligono del Giappone, l’erba della Pampa trasportate dal vento, dagli animali o dalle suole delle scarpe. Fanno da corolla ad esemplari di rampicanti animati da un anomalo tigmotropismo e troneggiano fra piante che amano il vento. Piante abituate geneticamente e morfologicamente allo schiaffo del vento alla brezza costante come il maestrale, il libeccio alla tramontana, a tutti i venti di tutte le provenienze. Si tratta generalmente di graminacee, alternate da erbacee perenni con tinte contrastanti e che possono colorare le aiuole quanto le cugine graminacee. Sono il veronicastrum virginicum, l’echinacea purpurea, la sanguisorba officinalis, il thalictrum delavayi, la catananche caerulea, l’eringyum amethystinum, la verbena officinalis, la stipa tenuissima, la calamagrostis acutiflora , la festuca arundinacea, il pevinisetum alopecuroides, il miscanthus sinensis per cercare di dare corpo a un’idea di ”giardino in movimento”, spazio in cui la natura non è assoggettata e soffocata dalle briglie di un progetto, di uno schema preconfezionato, e dove spesso è più prezioso sapere cosa non fare anziché intervenire e aggredire. Si apprenderà allora l’arte di agevolare, favorire, incoraggiare, e mentre «il gioco delle trasformazioni sconvolge costantemente il disegno del giardino», sia il giardiniere, inteso come il «guardiano dell’imprevedibile», sia il visitatore, potranno nutrirsi delle immancabili dosi di sorpresa che la natura riserva loro quando si esprime finalmente nella sua pienezza. Ecco allora che non parrà strano leggere nel manifesto Gilles Clement (che come tutti i manifesti annuncia un’avanguardia non solo di linguaggio ma anche di comportamento) frasi come:“ Elevare l’indecisione fino a conferirle dignità politica. Porla in equilibrio col potere. “Considerare la non organizzazione come un principio vitale grazie al quale ogni organizzazione si lascia attraversa dai lampi della vita. Avvicinarsi alla diversità con stupore. Considerare la mescolanza planetaria – meccanica inerente al terzo paesaggio – come un motore dell’evoluzione. Presentare il terzo paesaggio, frammento indeciso del Giardino planetario, non come un bene patrimoniale, ma come uno spazio comune dl futuro. Elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica. Proteggere i siti toccati da credenze come un territorio indispensabile per l’errare dello spirito. Confrontare l’ipotesi con altre culture del pianeta, specialmente quelle culture i cui fondamenti poggiano su un legame di fusione tra l’uomo e la natura”.
Secondo la mitologia greca, ad inventare l’arpa eolica fu proprio il Dio dei venti, Eolo; ma strumenti simili ad esso, erano già noti oltre che alla civiltà greca, anche ad altre società primitive.Il primo a descrivere questo strumento fu il filosofo e gesuita tedesco Athanasius Kircher (1602–1680), autore del libro Phonurgia nova, sive conjugium mechanico-physicum artis & natvrae paranympha phonosophia concinnatum del 1673.La produzione e diffusione "moderna" dello strumento nel mondo occidentale, risale al XVII secolo. Essa si limitò nella sua diffusione solo all'Inghilterra, alla Germania e alla regione francese dell'Alsazia, dove artigiani si specializzarono nel costruire diversi esemplari, destinati alla case di privati cittadini.L'arpa eolia, in epoca romantica, era solitamente costituita da otto corde di budello (ma il numero poteva variare da quattro a più di sedici), tutte di eguale lunghezza, ma con differenti tensioni. Esse venivano fissate lungo una cassa di risonanza di legno generalmente di forma rettangolare, mediante due ponticelli. Tali corde, la cui tensione veniva regolata attraverso dei piroli tiracorda posti su uno dei due ponticelli, avevano la caratteristica di poter entrare in vibrazione quando lo strumento veniva esposto all'azione del vento. Al centro della cassa armonica, erano presenti dei fori, generalmente uno o due, che permettevano al suono prodotto dalle corde, ed amplificato dalla cassa stessa, di fuoriuscire dallo strumento divenendo così udibile.Considerato il più romantico tra gli strumenti musicali, l'arpa eolia divenne in quegli anni il simbolo dell'estetica romantica dei paesi anglo-sassoni.Essa venne descritta in due poesie di Samuel Taylor Coleridge, e in un romanzo di William Heinesen, oltre che in Lolitadi Vladimir Nabokov. Una lira, che è un altro nome per indicare l'arpa eolia, è citata in un'ode di Percy Bysshe Shelley, Al vento di ponente. Un altro scrittore che citò questo strumento in una sua opera, fu Ian Fleming. È descritta anche nel libro di C. Potok "l'Arpa di Davita".Fryderyk Chopin fu il primo compositore ad ispirarsi a questo strumento (Studi per piano, Opera 25, n.1 in La bemolle maggiore).Un altro compositore, fu Sergei Ljapunov (Op. 11 n. 9 di Studi musicali), che nell'accompagnamento del tremolo, sembra imitare il suono di questo strumento. Anche altri compositori contemporanei si ispirarono all'arpa eolia, come Hector Berlioz, Henry Cowell, Giovane Thomas, ed il sassofonista jazz Jan Garbarek, che in una sua registrazione ha usato lo strumento collocato su un fiordo norvegese.
La Buddleja è un arbusto caducifoglio a rami arcuati Dimensioni medie : dai 2 ai 5 m. a seconda delle varietà. Pianta originaria della Cina è stata importata in Europa nel 1893, coltivata nei giardini e nei parchi è presto sfuggita alla coltura e sta diventando un pianta invasiva, essa infatti si adatta facilmente ad ogni tipo di suolo preferendo quello calcareo. Attualmente è comune in Europa dove cresce su dirupi e nei luoghi incolti, golene, rive di fiumi e di laghi, radure forestali, scarpate ferroviarie, dalla pianura fino a oltre 1300 m. Le foglie sono verde scuro, lanceolate e talvolta coperte da una peluria biancastra nella parte inferiore. La buddleja fiorisce da fine giugno a fine ottobre/novembre. Può essere un punto di forte attrattiva se utilizzata in macchia di più esemplari in un grande giardino oppure come esemplare unico, in un giardino di piccole dimensioni, che le farfalle visiteranno sovente nelle ore più calde del giorno e al calar del sole. Questa particolarità le fa derivare il nome volgare con cui la chiamano gli anglosassoni: Butterfly Bush (Arbusto delle Farfalle) I fiori ermafroditi, attinomorfi, profumati,molto numerosi, sono riuniti in pannocchie apicali cilindriche lunghe 20-50 cm.
.La prima descrizione che troviamo dell’anatra vegetale è dovuta a Giraldus Cambrensis, nella sua Topographia Hiberniae scritta nel 1187 : "Ci sono molti uccelli, chiamati Bernacae, che la natura produce contro le sue stesse leggi in maniera meravigliosa. Sono come anatre di palude, ma un po’ più piccole. Sono generate dai tronchi di abete gettati dal mare, ed all' inizio sembrano delle escrescenze su di essi. Successivamente si appendono col becco, simili ad erbe marine attaccate al tronco, e sono racchiuse in conchiglie per potersi sviluppare più liberamente. Essendosi così nel corso del tempo ricoperte di uno strato di piume, esse infine cadono in acqua o si alzano a volare nell' aria. L' embrione di anatra si accresce e si nutre da una mistura ricavata in maniera segreta e meravigliosa dal mare o dal legno. Ho visto con i miei occhi più di mille di questi minuscoli corpi di uccello pendere da un tronco sulla spiaggia, chiusi in conchiglie e già formati" …. "In nessun luogo del mondo si è mai saputo che facciano dei nidi. Per questo motivo i vescovi e il clero in qualche parte dell'Irlanda sono usi mangiare nei giorni di magro questi uccelli senza scrupoli. Ma ciò facendo essi cadono in peccato. Perché se qualcuno avesse mai mangiato la coscia del nostro primo progenitore, anche se egli (Adamo) non era nato da carne, quella persona non potrebbe essere sollevata dal sacrilegio di aver mangiato carne". Dalla descrizione di Giraldo possiamo comprendere quanto la leggenda fosse già conosciuta e popolare, almeno in Irlanda, se la si arrivava a collegare ad una diatriba come la dieta nella Quaresima e nei giorni di magro. Che d' altra parte che questo non fosse un aspetto del tutto secondario lo si può arguire dal fatto che nel 1215 sia necessario addirittura l'intervento di un Papa, Innocenzo III, per proibire definitivamente il consumo di ogni tipo di carne nei periodi di magro, a prescindere dalla origine marina o meno che questa avesse. E’ però un altro Papa, Enea Silvio Piccolomini, Pio II, (1405-1464 ) ad aggiungere credibilità al prodigio, scrivendo : "Abbiamo saputo che in Scizia c'è un albero che, cresciuto lungo un fiume, produceva dei frutti che avevano forma di anatre, e che, maturando, cadevano da soli, gli uni in terra, gli altri in acqua. E quelli che cadevano in terra imputridivano, quelli che erano caduti in acqua, prendevano vita, nuotavano sull' acqua e s' involavano, mettendo le piume, in aria".
Dopo l’apprezzamento ottenuto dal progetto del Comune di Roma nella passata edizione, il comune di Cervia ci invitava a partecipare all’edizione 2019
GIARDINO DELLA AULENTISSIMA AMOROSA, Salvarano, Quattro Castella
Parco culturale dell'Ariosto e del Boiardo
E' nato il PAB, luogo reale e virtuale alla ricerca del genius loci della nostra terra
Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto: due sommi poeti dell’epica cavalleresca, due reggiani.
Figure che hanno lasciato una traccia indelebile nell’estetica letteraria, nella storia della poesia. Noti nel mondo, poco frequentati nella terra natìa, dove restano un po’ nascosti tra gli anfratti del territorio, come defilati tra gli andamenti irregolari delle colline e i luoghi storici a loro legati, intitolati, a volte integri, a volte diroccati. Eppure c’è l’evidenza di un genius loci tipicamente reggiano, più ampiamente emiliano, riverberatosi da allora fino a noi nell’opera artistica di tanti moderni cantori del fantastico, dell’immaginifico e dello scavo psicologico profondo al confine con la follia, come Antonio Delfini, Cesare Zavattini, Gianni Celati o Ermanno Cavazzoni.
Da questa convinzione è nato un progetto forte, voluto dalla Provincia di Reggio Emilia, con la Biennale del Paesaggio, in collaborazione con i Comuni di Reggio Emilia, Scandiano, Canossa ed Albinea: il PAB “Parco culturale dell’Ariosto e del Boiardo”. Un Parco ideale e al contempo assai concreto per interconnettere i luoghi della provincia reggiana che vantano legami con la vita e l’opera dei due autori dell’Orlando innamorato e dell’Orlando furioso, riunendoli virtualmente in un unico ampio spazio mentale. Così che quel genius loci di cui ancora la fisicità dei luoghi è impregnata possa rianimarsi e trovare vigore.
Un Parco nel quale avverranno cose, si incroceranno idee e narrazioni, si rivivranno vicende per sovrapporre al territorio, come si presenta ai nostri occhi, un contesto emozionale analogo a quello in cui si trovarono i due poeti quando scrissero le loro opere. L’uomo moderno evocherà le loro suggestioni per risalire alle fonti di quella sensibilità leggera, iperbolica, per lo più comica in Boiardo e ironica nell’Ariosto, che ha generato uno stile letterario tra i più popolari. L’intera provincia potrà riprendere coscienza di questa sua cifra riallacciando un rapporto più diretto con le vivide figure di Orlando, Rinaldo, Astolfo, Gradasso, Angelica e le loro epiche avventure. Ariosto e Boiardo, che oggi sorvegliano austeri i Giardini pubblici di Reggio Emilia rappresentati nelle due statue di Riccardo Secchi, torneranno vitali e attivi anfitrioni nella loro terra natale, “accompagnando” i flussi del turismo culturale lungo itinerari pensati per valorizzare l’identità più profonda del nostro territorio.
I luoghi
I confini geografici di questa grande area intellettuale e fisica al tempo stesso non delimitano un unico luogo, ma un’idea ampia di territorialità che si moltiplica in varie località anche distanti, costituendo una vera e propria mappa geografica che da nord a sud e da est a ovest coinvolgerà gran parte della provincia.
La suggestione e la particolarità dei luoghi che compongono fisicamente questo mosaico daranno vita a una scenografia diversificata nella quale paesaggio, cultura, arte e letteratura già s’intrecciano idealmente: dal Monte Jaco situato sulla sponda destra del Crostolo, tra il castello di Albinea e la chiesa di Puianello, alla Rocca di Canossa; dalla villa quattrocentesca del Mauriziano alle porte di Reggio Emilia, appartenente ai Conti Malaguzzi - famiglia d’origine della madre dell’Ariosto -, alla Rocca medievale di Scandiano, trasformata nel ‘500 dal conte Giulio Boiardo in sontuoso palazzo. La prima rete di corrispondenze individuate per l’avvio del progetto, sintetizzata già da quest’anno in una guida che nel 2008 sarà tradotta anche in inglese, è aperta al contributo di studiosi e appassionati per una sempre più completa integrazione e definizione.
Nel 2007 si sono svolte numerose iniziative (vedi allegato scaricabile) che hanno rappresentato un'anteprima di una programmazione che si svilupperà poi dalla primavera 2008 con sempre maggiore ricchezza progettuale. Gli appuntamenti sono stati e saranno a ingresso gratuito.
I primi luoghi inseriti nel parco
Case Malaguzzi - Reggio Emilia
Parco di Cittadella (Oggi Giardini Pubblici) - Reggio Emilia
Il Mauriziano - loc. San Maurizio - Reggio Emilia
La Rocca - Scandiano
Il Tresinaro - Scandiano
Villa Torricella - Ventoso di Scandiano
Chiesa di S.Maria dell’Uliveto - Montericco di Albinea
Monte Jaco - Albinea
Il Castello di Matilde – Canossa
Il PAB “Parco culturale dell’Ariosto e del Boiardo” è un’iniziativa promossa dalla Provincia di Reggio Emilia, dalla Biennale del Paesaggio e dalla Regione Emilia Romagna in collaborazione con i Comuni di Reggio Emilia, Albinea, Canossa e Scandiano. Il progetto gode del sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Reggio Emilia “Pietro Manodori” e di Ccpl.
NUOVA AGRICOLA RIVIERA NOVELLARA
I GIARDINI PARALLELI DEL LUCINORCO
ED ALTRI GIARDINI
Progetti e realizzazioni di giardini svolti per conto delle Amministrazioni comunali di Cervia, Genova, Quattro Castella, Reggio Emilia, Roma Scandiano.
Il sogno, autore di rappresentazioni,
nel suo teatro sul vento costruito,
ombre suol vestire di aspetto bello Luis de Gongora
Trovandoci in un bosco, in un prato od in un giardino a primavera è facile provare inconsciamente di essere entrato in una dimensione differente da quella quotidiana Gli alberi, i fiori ed anche le erbe, per “la presenza di quella trepidazione sacra con la quale la primitiva coscienza mitologica dell'uomo antico osservava il circostante mondo della natura”, possono evocare una serie di simboli diventando fonti di energia spirituale, come ebbe a spiegare Pavel Florenskij nel sue saggio sulle icone. Nei fiori potremmo cogliere la Bellezza ma anche l’impermanenza della vita, nelle erbe la tellurica presenza della grande Madre che sovrintende alla fertilità Un albero potrebbe evocare l’immagine del cosmo come testimonia il frassino Yggdrasill i cui rami sovrastano il cielo e le radici affondano negli inferi. L’immaginario sul giardino, nei secoli si è arricchito di significati sempre nuovi, metafora del cosmo e della vita; riflesso della perfezione divina o sede della filosofia: rifugio protetto dagli affanni, luogo dell’amore ma anche di pericolo mortale, dove la bellezza nasconde l’inganno. Dai romantici in poi la cultura moderna ha prescritto all'esperienza estetica di costruire un nuovo universo simbolico capace di rimitizzare sempre di nuovo, l'esperienza umana, una volta che "gli dei hanno abbandonato la terra" (Holderlin). Da allora é proprio dall'esperienza artistica che gli uomini hanno atteso "un dio nuovo" (Nietzsche). Non sappiamo se esso sia giunto, né se dalle arti lo si possa (o debba) ancora ragionevolmente attendere. Ma é certo che i mondi che esse hanno saputo creare restano ancora, per noi, abitabili Il racconto che segue è un cammino attraverso alcuni piccoli giardini che ho progettato nel corso degli anni, frammenti di ricordi raccolti col piacere del raccontarli: giardini di felicità sognata, perduta ma anche di felicità possibile
Il disegno del Giardino del Sole del 1983 a Reggio Emilia era un geoglifo dalla forma di sole e voleva essere un tributo al misticismo astrale che dal “Sol invictus di Aureliano al “Sol Iustitiae cristiano, accomuna l’esperienza religiosa antica. Un geoglifo che assomigliava al seme di denari delle carte piacentine, con occhi, naso e bocca. Dove il naso era occupato dal gioco del mondo (o gioco della settimana), le pupille erano due orologi solari ed una fontana musicale alimentava la bocca. Il gioco della settimana e la fontana sonora erano i due elementi liturgici più tangibili. Il primo si riferiva al rituale di danza apotropaica che pur inconsciamente, viene mimato nel gioco, e la fontana musicale la accomunava a certe pratiche orientale di preghiera affidate ad un meccanismo cinetico ( ruote di preghiera, campane a vento, ecc.) che in questo caso sarebbe stato attivato dal fluire dell’acqua. Nel progetto, gli alberi ed i cespugli ricalcavano il disegno dei raggi del geoglifo solare e partendo dalla circonferenza andavano all’infinito verso la campagna. Nella scelta degli alberi e dei cespugli si era previlegiata l’annotazione mitologica: l’agrifolio, perché apotropaico per spiriti maligni, il biancospino, perchè i suoi fiori bianchi ereditano virtù e poteri della Madonna, il bosso, apotropaioco e sacro a Plutone ( con il suo legno venivano costruiti gli aspersori per la liturgia), il nocciolo, buono per bacchette magiche, ecc .In questa opera, il giardino si poneva come teatro della memoria, dove le cose non erano rappresentate nella loro immanenza, ma dovevano suggerire analogie e relazioni. Alla stregua degli schemi mnemotecnici di Giordano Bruno, il materiale botanico avrebbe così potuto diventare strumento estetico capace di evocare il mito. Ars memoriae ("L'arte della memoria") è un'opera in latino del filosofo Giordano Bruno pubblicata nel 1582 insieme al De umbris idearum ("Le ombre delle idee"). Mentre il De umbris si può ritenere una introduzione ai principi filosofici sui quali l'autore fonda l'arte della memoria, l'Ars memoriae presenta una metodologia di applicazione della stessa. In una ristretta cerchia rinascimentale, di matrice neoplatonica ed ermetico-cabalistica, l’arte della memoria assurse ad onori ben maggiori di quelli che gli si riconoscono attualmente. Uno dei più celebri esempi di questo utilizzo, quasi iniziatico, della memoria, è l’opera del retore e filosofo Giulio Camillo, (1480-1544), che progettò di erigere un vero e proprio teatro della memoria. La sua intenzione era quella di edificare un sistema mnemonico che ricalcasse il funzionamento della mente umana, in cui racchiudere tutto il sapere dell’uomo, da lui selezionato e organizzato. Senza addentrarci nelle complesse istruzioni che guidano l’utilizzo del Teatro, basti sapere che esso si basa su un sistema di quarantanove luoghi. Vi sono infatti sette ordini o gradi (sistema orizzontale) che si intersecano con sette corridoi (sistema verticale). In ogni luogo, vi è una porta su cui sono impresse diverse immagini, dietro le quali sono contenuti degli scritti ad esse relazionati. La mnemotecnica Rinascimentale, si poneva quale fine non più il dilatarsi della mente, bensì tentava di strutturare se stessa come mezzo di ricreazione del mondo. Nel 1700, il filosofo e matematico Leibniz (grande studioso anche di linguistica), divulgò i suoi studi sulle differenti capacità che il nostro palato ha di emettere suoni. Divise in 10 tipologie i suoni fondamentali, che sono presenti, praticamente, in tutte le lingue del mondo li associò ai 10 numeri naturali, da 0 a 9, secondo questa tabella che prende da allora il nome di Conversione fonetica di Leibniz: 0: suoni S,Z,SH (suoni SIBILANTI) 1: suoni T,D (suoni DENTALI); 2: suoni N, GN (suoni NASALI); 3: suono M (suono BILABIALE o "MUGOLANTE"); 4: suono R (suono VIBRANTE); 5: suoni L, GL (suoni PALATALI); 6: suoni C,G (suoni ALVEOLARI) 7: suoni CH, GH (suoni GUTTURALI) 8: suoni F,V (suoni LABIO-DENTALI) 9: suoni P,B (suoni LABIALI).Da questo momento in poi divenne possibile trasformare sequenze numeriche, prive di senso rappresentazionale, in personaggi, azioni ed oggetti, che la mente può visualizzare in modo diretto ed immediato Proviamo ad immaginare questa scena nella mente: MAMMA LAVA I PANNI COL SAPONE Sarebbe difficile memorizzare il seguente numero di cellulare 335.892.750.92 dopo averlo ascoltato una volta sola. Eppure la frase scritta prima è proprio il risultato della codifica di Leibniz: infatti togliendo le vocali otterremmo proprio i suoni (consonanti), che codificati tramite la tabella corrispondono ai numeri del cellulare.
Ascoltando la musica che sempre pervade un luogo storico avevamo pensato che la riqualificazione del giardino che circonda la Rocca di Montecchio Emilia (RE) consistesse in un esercizio più del levare che dell’aggiungere. Si trattava di trasformare, senza dissiparlo, un patrimonio botanico informe ma ormai consolidato costituito da alti tigli, acacie, abeti e siepi. Così, avevamo cercato di costruire un novo senso, un nuovo ordine E questa nuova cifra era stata trovata nel rapporto aureo, la divina proporzione degli antichi. Così nel riprogettare nuove partiture del giardino, rinominato per questo della Divina Proporzione, nel 1984 avevamo legato tra di loro , secondo un rapporto aureo, i percorsi e l’alternarsi dei tappeti erbosi, dei sentieri, dei ciottoli di fiume, della ghiaia e della sabbia. La sezione aurea o rapporto aureo o costante di Fidia o proporzione divina, nell'ambito delle arti figurative e della matematica, indica il numero irrazionale 1,6180339887... Le sue proprietà geometriche e matematiche e la frequente riproposizione in svariati contesti naturali e culturali, apparentemente distanti tra loro, hanno suscitato per secoli nella mente dell'uomo la conferma dell'esistenza di un rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra Dio e l'uomo, l'universo e la natura. Diversi filosofi e artisti sono arrivati a cogliervi col tempo un ideale di bellezza e armonia spingendosi a ricercarlo e, in alcuni casi, a ricrearlo nell'ambiente antropico quale canone di bellezza. La definizione del rapporto aureo viene fissata attorno al VI secolo a.C., per opera della scuola pitagorica da Ippaso di Metaponto, che associò a esso il concetto di incommensurabilità. La definizione di rapporto aureo viene ricondotta allo studio del pentagono regolare; il pentagono è un poligono a cinque lati nel cui numero i pitagorici scorsero l'unione del principio maschile e femminile (rispettivamente nella somma del 2 col 3), tanto da considerarlo il numero dell'amore e del matrimonio. Dal declino del periodo ellenistico passarono circa mille anni prima che la sezione aurea tornasse nuovamente a stimolare le menti dei matematici, che in essa rilevarono anche proprietà di natura algebrica, oltre che geometrica Nel 1202 Leonardo Fibonacci pubblica il suo Liber abaci, il libro col quale si diffonderanno in Europa le cifre indo-arabe, semplificando le modalità di calcolo nelle operazioni quotidiane. Nel medesimo libro, Fibonacci introdusse pure per la prima volta il concetto di successione ricorsiva, con la successione: 0 , 1 , 1 , 2 , 3 , 5 , 8 , … in cui ogni termine è la somma dei due precedenti, la successione di Fibonacci: Anche la successione che porta il suo nome resterà indissolubilmente legata alla sezione aurea e la relazione tra queste due tematiche verrà scoperta solo qualche secolo più tardi durante il Rinascimento.
Il Giardino di Circe del 1985 è stato il progetto di uno spazio pubblico nel Comune di Quattro Castella dedicato al tema dell’illusione: Gli apparati di arredo costituivano un grande arcimboldo dai tratti umani, nel quale prestavano forma come bocca una panchina, come occhi i pozzi di aerazione della sottostante autorimessa e come naso un misterioso oggetto metallico. Quest’ultimo custodiva al suo interno una camera di distorsione prospettica o di Ames, un grande caleidoscopio, ed infine una camera a luci nere di Wood. Tutta la piazza era percorsa da linee misteriose che si intersecano in punti segnati da un diverso colore nella pavimentazione. Erano i nodi di Hartman, dal nome del geobiologo che teorizzò la loro esistenza. In fondo alla piazza era collocato un piccolo giardino di topiaria: evocazione e sogno dove le piante, piegate in forme a loro inconsuete, alludevano alla condizione in cui lo sguardo è dominato dal desiderio di vedere le cose in modo preconcetto Oggi sappiamo che la retina è un frammento di materia grigia “alla periferia”, per cui questa parte dell'occhio comincia a pensare, ed il cervello completa a suo modo l' “abbozzo” che gli proviene direttamente dai dati immediati di percezione, per dirla alla Bergson. Le illusioni ottiche sono delle organizzazioni percettive molto particolari, in forza delle quali si vede una cosa che non c'è, o la si vede come non è. Un quadrato compare al centro di un certo disegno; ma se prendete in esame il tutto vi accorgerete che siamo noi a vederlo, perché in realtà questa figura geometrica non ha contorni suoi, e la sua apparizione è il frutto di una nostra elaborazione coatta del “veduto” (cfr. il quadrato di Kanitza). Oppure, una linea sembra più lunga e una più corta ma se la misuriamo con il decimetro sono uguali (cfr. l'illusione di Muller-Lyner). Da che cosa dipendono queste inadempienze del nostro congegno occhio-mente? Gli psicologi della “Gestalt” parlano di meccanismi cerebrali innati, che ci obbligano a vedere così e non diversamente. I transazionisti, invece, più mirati sull'appreso credono che quello che vediamo ora si confronti sempre con tutto quello che abbiamo veduto prima, e noi scegliamo, in caso di ambiguità visuale, la soluzione ottica che ci sembra più in accordo con il dejà vu. La percezione è governata dalla memoria. Si veda, la camera di Ames. E' una grande “scatola” in cui entrano tre persone, che vanno a mettersi l'una accanto all'altra, in linea, sul fondo. Dal di fuori, un osservatore, guarda all'interno da un foro praticato nella parete opposta, e vede un gigante, un uomo di statura normale, ed un nano. Quando il terzetto esce, il “guardone sperimentale” constata, e sempre con un certo stupore, che tutte e tre le “cavie” sono di altezza corporea pressoché uguale. Il trucco è semplice: la camera di Ames ha il fondo non perpendicolare alle due pareti laterali, ma posto di sghembo, per cui l'uomo più vicino a chi guarda sembra più grande, e quello più lontano più piccolo. Questa illusione è legata al fatto che tutte le stanze delle nostre case non hanno quasi mai le pareti di sghembo, per cui l'osservatore suddetto, scarta l'ipotesi della “trasversalità”, e della diversa distanza da lui delle persone del terzetto, e si adegua all'ipotesi più probabile, che nella camera ci sia, a sinistra, un uomo molto alto, e a destra, un altro molto piccolo. A conferma di questa percezione “abitudinaria” c'è il fatto che gli Zulù, presi in esame da alcuni psico-etnologi, sembrano essere meno sensibili di noi all'illusione di Ames. Ma per forza: essi abitano in capanne circolari e non hanno, quindi, le nostre stesse attese, e consuetudini visive. Porre una camera di Ames al centro di una piazza, sottraendola al laboratorio, significava proporre una esperienza scientifica collettiva, chiamando in causa tutti i cittadini. Possiamo supporre che l'illusione abbia subito un processo di rapida entropizzazione, e che chi guarda da fuori, dopo essere stato dentro, abbia cominciato a vedere non il nano od il gigante, ma la parete trasversale, recuperando la costanza percettiva. Se Andrè Breton scriveva che tutti gli uomini sono poeti, la camera di Ames in piazza poteva suggerire che tutti gli uomini possono diventare degli psicologi sperimentali.
Poco distante nella piazza del Municipio ai margini di un piccolo giardino, fa mostra di se un’altra macchina. E’ Irene , Monumento alla Pace., monumento macchina, produttore di multipli d’arte sempre diversi e rinnovabili. Dal disegno sul tema della pace di artisti contemporanei vengono ricavati dei punzoni. Questi montati su di un torchio collocato all’interno del monumento-macchina trasferiscono, a secco, su di un foglio di carta, il disegno dell’artista creando in questo modo dei multipli d’arte a disposizione di tutti Il 25 Aprile di ogni anno i punzoni vengono sostituiti quando, un altro artista, avrà inviato al comune un nuovo disegno. Sono uscite anno dopo anno le opere di: Omar Galliani, Luigi Ontani, Vettor Pisani, Stefano Di Stasio Fausto Bertasa, Davide Benati, Michelangelo Pistoletto, Wainer Vaccari, Igor Mitoraj. Ivan Theimer. Gerardo Dicrola Omar Ronda, Luca Maria Patella ed altri. Ogni 25 aprile il monumento sarà al centro di una festa in cui il nuovo artista prescelto incontrerà la cittadinanza e firmerà copie dell’opera.
Il progetto MORGANA, acronimo di Macchine Operatrici Robotizzate Generatrici di Arte Normografata nell’Agricoltura. era stato presentato nel 1986 ad agricoltura 2000 nello stand di Olivetti e poi nello stesso anno alla Biennale di Venezia con Giorgio Celli nella sezione Arte e Biologia. Il paesaggio agrario, frutto di un’azione umana che, continua e sistematica, è assurta a “fattore naturale”, ha prodotto un arricchimento nella diversità del paesaggio naturale. Il futuro, affrancato dalla fatica e dalla “necessità”, vedrà l’agricoltore, “novello giardiniere”, dedicarsi ad artistiche sistemazioni e lavorazioni dei campi. Sarà l’età dell’agronica, l’agricoltura computerizzata che potrà arrivare a risultati impensabili per le tecniche tradizionali. D’altra parte la fantagricoltura era già iniziata con l’utilizzazione di computers nella gestione aziendale, nelle stalle, nei campi e nella lotta ai nocivi. ma l’attesa era nella comparsa di una macchina intelligente capace di muoversi ed operare autonomamente. A dimostrazione avevamo previsto di realizzare opere di land-art utilizzando le tecniche più avanzate di quest’ultima rivoluzione agricola che possiamo chiamare “dell’intelligenza”. La guida dei mezzi avrebbe dovuto essere automatica ed un computer avrebbe programmato le macchine operatrici. Queste, come punte di un gigantesco plotter, avrebbero disegnato sul terreno figure immense, non percepibili da terra, ma spettacolari se riprese dall’aereo. La prima operazione prevista avrebbe prodotto, agendo per sottrazione (falciatura), su di una vasta coltivazione di granoturco, un grande labirinto vegetale. La seconda operazione avrebbe scritto, mediante un aratro o un ripper, su di un prato, una poesia breve. L’ultimo intervento avrebbe creato un grande quadro dipinto con i colori delle diverse essenze messe a dimora da seminatrici di precisione programmate. Più ancora di un quadro sarebbe apparso come una scena filmica che avrebbe mutato con tempi straordinariamente lenti, propri di un’arte nuova che eleggeva il mondo a suo palcoscenico. Dal progetto MORGANA discendono alcune realizzazioni di Land Art da me collocate nella campagna di Novellara e rispondenti al regolamento CEE 2078/9
Il progetto del Parco della Resistenza di Scandiano e dei Giardini paralleli del Lucinorco è del 1987 e mirava a recuperare la centralità del giardino nella vita urbana. Avevamo per questo pensato ad uno spazio che facesse della metamorfosi il suo attributo peculiare. A questo alludeva anche il geoglifo della figura di Rubin, con il quale avevamo disegnato i percorsi pedonali: una figura in continua oscillazione tra l’emergere di due volti o di una coppa. Significava proporre un giardino-pista di atterraggio che nello stesso atteggiamento di azzeramento, partenze e arrivo, fosse attrezzato, per il verificarsi di eventi individuali e collettivi. Spazio, disponibile a virare verso nuovi scenari nei quali le istallazioni e gli apparati avrebbero avuto dignità di veri arredi. L’arredo fisso era ridotto a pochi apparati sparsi nel verde: un orologio solare, uno vegetale (o di Linneo), un pastorale aruspicino, nidi artificiali e due fontane sonore. Poste in corrispondenza delle labbra del grande geoglifo della figura di Rubin, ripetevano con murmure gorgoglio, segrete frasi d’amore. Vicino un’urna avrebbe accolto in forma scritta i sogni che gli abitanti le avrebbero affidato. Il giardino avrebbe vissuto nell’attesa di quando lo avrebbero fatto bello gli arredi e le istallazioni della festa. Questi sarebbero stati gli elementi di un’opera aperta, di un’altra natura, quella artificiale, governata dai progetti, sempre diversa perché diversi i progetti. Avrebbe avuto in comune con il teatro il senso del travestimento, della trasformazione, della maschera, e con la natura naturale la metamorfosi. La seduzione del giardino sarebbe stata affidata ad una volontà e densità di spettacolo nella quale, come affermava Baudrillard, fosse possibile “sottrarre le cose al caso e alla necessità. I Giardini paralleli di Lucinorco, uno dei mille sognati, volevano essere esempio di frequentazione di un territorio che avrebbe dovuto estendersi ad altre occasioni Si trattava di un esercizio psicoterapeutico che, riscoprendo il piacere della fantasia, e il riferimento al Boiardo era d’obbligo per la città che ne aveva dato i natali, potesse sottrarre la città, almeno per una volta, all’idea di bisogno e necessità e piegarla a realizzare una parte immaginaria dei desideri della gente. “Il progetto, era un progetto di progetti, proposta di manifestazioni ed attività da svolgere in quello spazio ed era in corso di studio con la Biblioteca Comunale. Frequentando le contaminazioni fra fantastico e reale, era volta a suscitare il desiderio, il sogno e attraverso le favole dei poeti, reincantare la città
Il Giardino della Aulentissima Amorosa realizzato nel 1988 a Salvarano di Quattro Castella è una ampia zona di verde a ridosso del torrente Modolena che ospita attrezzature sportive e ricreative Il giardino era parte di un progetto più ampio di riqualificazione dell’intero borgo. L’area è percorsa da un pedonale, che disegna il geoglifo di una figura femminile che dalla bocca emette la parola amo. Il disegno del geoglifo era rafforzato dalla presenza di rose, gialle nei capelli, rosa nelle guance e rosse nelle labbra. In alcuni punti del percorso erano previsti dei piccoli slarghi di sosta attrezzati con panchine e fontane e racchiusi da pergolati Trovavano dimora una collezione di rose antiche come -Belle De Jardins (1872) -Cardinal De Richelieu (1840) -Duc De Guiche, Duchesse De Montebello, Tuscany (1596) Old Velvet Rosa Centifolia, Robert le Diable anteriore al 1837 Fantin Latour, Prolifera di Redoutè, Rosa Centifolia Cristata conosciuta come Chapeau De Napoleon ,Capitaine John Ingram (1854) Eugenie Guinoisseau (1864). General Kleber (1856). Japonica, Marechal Davoust(1853) Nuits De Young (1845) Salet (1854) William Lobb (1855) Zoe (1861) , R. Damascena, R. Damascena Semperflores o Bifera R.Damascena Versicolor, Celsiana (1750) Hebe’s Lip (prima del 1846) Isphahan ( prima del 1832 ) Rosa Mme Hardy ( Hardy 1832 ) Rose D’Hivers, Cuisse De Nynphe Emue (1797)Rosa Alba Suaveolens, Celeste o Celestial (prima del 1848) Felicite Parmentier (1834). Koning Von Danemark (1816) M.me Plantier (1835), R.Chinensis Mutabilis. Rosa Chinensis Viridiflora. Old Blush 1752. Sophie’s Perpetual, E. Veyrath Hermanos. Lady Hillingdon (1910 ) Gloire De Dijon (1853) Maman Cochet (1893)M.me Driout (1902). Marie Van Houtte (1871) Safrano (1839) Sombreuil (1850), Blanc Double De Coubert (1892) Conrad F. Meyer (1899) .F.J Grootendorst, Frau Dagmar Hastrup M.me Gravereaux (1906) Rose a Parfumde l’Hay (1901) Roseraie De l’Hay Sarah Van Fleet (1926) Scabrosa (1950) Therese Bugnet (1950) Mermaid , Duchesse of Portland (1800), Jacques Cartier (1868), Rose Du Roi, Boule de Neige (1867), Kathleen Harrop (1919) la Reine Victoria (1872) Louise Odier (1851) Queen of Bourbons (1834) Souvenir de la Malmaison (1843) Variegata di Bologna(1909), Aimee Vibert (1828). Ogni città ha il proprio mito, qualcosa che fa si che di essa si parli, che su di essa si fantastichi; serie di immagini stratificate nel tempo, grazie alle quali é conosciuta, grazie alle quali la città suggestiona. Un mito difficilmente si crea con un atto di pianificazione; é piuttosto legato ad un evento difficilmente prevedibile di ordine sociale, letterario e così via. Il mito moderno brucia in fretta, a volte dura lo spazio di una stagione o di una serie televisiva. Pur consapevoli della difficoltà eravamo convinti che la riqualificazione del borgo dovesse nascere, prima ancora che nelle opere del giardino, nell’immaginario degli abitanti. Per questo avevamo coinvolto i bambini di Salvarano chiedendo loro di nominare tre toponimi e tre nomi o cognomi suggestivi, che potessero avviare una fabulazione ed un reincanto di quel luogo. Si era poi pensato di legare, con una operazione di mnemotecnica, il paese ad un fiore e al suo profumo: la rosa. Il materiale fantastico uscito dagli esercizi dei bambini e la figurazione mnemonica della rosa associata a Salvarano, avevano fornito al poeta Roberto Piumini materiale per una elaborazione fantastica sul paese. Il critico d'arte Marisa Vescovo aveva scelto l’artista Omar Galliani che era stato chiamato a realizzare una serigrafia nella quale era contenuto un enigma La soluzione avrebbe svelato il nome del nuovo ibrido di rosa che Vittorio Barni di Pistoia, il più grande ibridatore di rose italiano, avrebbe immesso sul mercato in ricordo di questo luogo. Fra quelle rose ogni anno il 12 di maggio, giorno del compleanno di Joseph Beuys ne era stata scelta una da collocare in un cilindro graduato. Si trattava di un rito che diventava ogni volta opera d’arte. Beuys la presentò nel 1972 a Kassel per documenta 5, rassegna d’arte contemporanea quinquennale. Beuys per 100 giorni, si sedette da una parte della scrivania e invitò i visitatori a dialogare con lui. Ognuno poteva ascoltare e interagire con le sue idee, maturate nel tempo e costituite in un movimento radicale chiamato Organizzazione per la democrazia diretta, fondato dall’artista Una rosa rossa, sempre nel pieno della sua vivacità, accompagnava quei giorni, insieme ad una frase: ohne die Rose tun wir’s nicht, che letteralmente significa Noi non lo faremo senza la Rosa. Un multiplo d’arte di quel cilindro graduato è stato donato dalla baronessa Lucrezia De Domizio Durini, al Comune di Quattro Castella che avrebbe nominato un manutentore della rosa, colui che si sarebbe preoccupato ogni anno di reiterare il gesto di porre la rosa nel cilindro. Nel 1982 Joseph Beuys chiamato a partecipare alla settima edizione della mostra «Documenta», di Kassel accumulò davanti al Museo Federiciano di Kassel un triangolo formato da 7000 pietre di basalto. Ognuna di quelle pietre doveva servire a piantare un albero. L’operazione si è protratta fino al 1987 quando è stata piantata l’ultima quercia e Beuys era già morto. In realtà l’opera si compirà in un arco molto più ampio perchè passeranno molti più anni prima che l’insieme delle querce piantate diventi il bosco che Beuys immaginava. Piantare degli alberi è operazione che quotidianamente viene svolta in tutti gli angoli del mondo. Eppure, nella sua banalità, ha significati profondi, soprattutto se consideriamo la crisi ecologica che il mondo industrializzato attraversa. E così, attraverso un rito collettivo, segnato dall’adozione di una pietra, Beuys era riuscito a calamitare l’attenzione di tutta la pubblica opinione internazionale su un’operazione alla quale diversamente non avremmo accordato tutto il valore che necessita dimostrando che la nostra sensibilità verso i valori aumenta se vi è la mediazione dell’arte Ecco, dunque, il ruolo dell’artista nella società contemporanea: ritrovare quei percorsi della vita che ci riportino a riconoscere i «significati» ed i «valori» che ci circondano e ai quali non possiamo rinunciare.
Nel 1988 in un’area destinata all’edilizia Economica Popolare a San Martino in Rio, era nato un piccolo quartiere, che rimandava per la tipologia e le aggregazioni prive di soluzioni di continuità, ad una dimensione tipica della città. Lo spazio che costituisce il vuoto fra i pieni edilizi, ospita tre piazze: Piazza dell’Acqua, Piazza della Terra e Piazza dell’Aria e del Fuoco, pensate come gioco per i bambini e come mezzo per accelerare lo scambio sociale. Piazza dell’acqua narra simbolicamente l’episodio leggendario di Polifemo nell’Odissea. Dalle acque poco profonde di una grande vasca si innalza un gazebo ottogonale dipinto di rosso. A mezzogiorno l’ombra della sua punta va a colpire la fontana che ha le fattezze dell’occhio del ciclope. Nel gorgo della pupilla nuota un pesce di Duscamp e delle sue lacrime è fatta l’ampia distesa d’acqua. Nel prato pascolano le pecore di Polifemo, dal vello di fiori ed erbe, vicino si trovano le armi di Ulisse: antichi strumenti di contadini che stanno come bandiere al vento che spinge lontana la barca dei Greci Qui tutto è predisposto al reiterarsi del sacrificio Tutto attende la ierofania del Sole per consumare l’evento. Poi calano le ombre dell’oblio e tutto ricomincia. Piazza della Terra era occupata da un piccolo labirinto, simbolo della metafora del costruire e non a caso Dedalo è il primo architetto della storia. Il gioco del labirinto voleva simboleggiare l’astuzia, la capacità tecnica, la perizia,il coraggio e la scaltrezza. Due apparati, fortemente evocativi, uno dedicato all’Aria, l’altro al Fuoco arredano. Piazza dell’Aria e del Fuoco Al Fuoco è dedicata una torre di legno chiamata “Torre di San Elmo”. Fuochi di S. Elmo sono chiamati i bagliori luminosi che appaiono durante le burrasche atmosferiche sulle cime degli alberi, delle navi e sugli orli delle vele. Le tradizioni popolari spiegano il fenomeno come l’apparizione di anime beate venute in aiuto ai naviganti ( cfr. Ariosto Orlando Furioso, L, 191 9. La torre di S. Elmo, doveva essere dotata di un sensore con il compito di dare l’allarme non appena si fosse avvicinato il pericolo di caduta di fulmini nella zona. e contiene al suo interno un gioco chiamato “Torre di Hanoi”. Questa era costituita da tre pioli su uno dei quali erano infilati dei dischi di vario diametro. Il compito e la ritualità era quella di trasferire la serie dei dischi ad uno qualunque dei due pioli rimasti liberi nel minor numero possibile di movimenti, muovendo un disco alla volta, e mai mettendo un disco più grande sopra uno più piccolo Si può provare che la soluzione a prescindere dal numero dei dischi della torre, e con il minimo numero di mosse richieste è dato dalla formula: 2n -1 (essendo n il numero dei dischi). Perciò 3 dischi possono essere trasportati con 7 mosse, 4 con 15, 5 con 31 2 così via. La Torre di Hanoi, fu inventata dal matematico francese Eduard Lucas che la indicava come una versione semplificata della mitica “Torre di Brahama”, esistente in un tempio della città indiana di Benares. Questa torre consiste in 64 dischi d’oro, che attualmente i sacerdoti del tempio stanno spostando. Prima che essi possano portare a termine il loro compito, si diceva il tempio sarebbe caduta in polvere, ed il mondo sarebbe scomparso. La scomparsa del mondo può essere messa indubbio, ma non vi è dubbio che il tempio crollerà, poiché la formula 264 -1, da un numero di 20 cifre pari a18.446.744.073.709.551.615; ammettendo che i sacerdoti lavorino giorno e notte, spostando un disco al secondo, occorreranno molte migliaia di milioni di anni per portare a termine il lavoro. Il progetto prevedeva l’istituzione di una sorta di “confraternita” preposta in particolari date a trasferire i dischi da un piolo all’altro e questo fatto avrebbe realizzato una sorta di ritualità urbana capace di suscitare una suggestione, fino a divenire probabilmente fattore mitopoietico. All’Aria infine, era dedicata la torre dei venti. Si trattava di una torre a base ottagonale dove ogni spigolo portava una copia di prismi a base icosaedrica liberi di ruotare attorno al loro asse, qualcosa di simile ai “Mani Chorcor”, le ruote di preghiera tibetane .Ciascuno dei prismi era collegato ad una lunga asta che in cima portava un’elica. Ogni faccia del prisma portava inciso un verso di una ottava. Quando il vento avesse spirato, le pale si sarebbero mosse facendo ruotare i prismi: Uno spettatore che, girando intorno alla torre, avesse letto i versi incisi sulle facce dei prismi a lui rivolti, avrebbe visto il vento comporre ottave sempre diverse, distruggendo e creando nuovi poemi. Questa torre poiogenetica poteva comporre da sola 1616 (=18.446.744.000.000.000.000 ) versi, in pratica molti poemi. Questo modo di costruire nuovi testi si rifà al “Cent, Mille Milliards de Poèmes” di Raymond Queneau), dove l’autore costruisce 10 sonetti, ognuno di 14 versi, in modo che il lettore possa a piacimento, sostituire ad ogni verso uno dei nove che gli corrispondono. E’ forma di poesia che potrebbe essere chiamata esponenziale, perché il numero di poesie di n versi che si possono ottenere col metodo Queneau, è dato dalla funzione esponenziale 10n.
Nel progetto di riqualificazione e mitopoiesi urbana di Montecavolo del 1990, chiamato Montefavolo, si trattava di cercare o ricreare come in tutte le periferie urbane un cuore poetico. Anche Montecavolo cresciuta troppo rapidamente negli ultimi anni del 1900 era da considerarsi una sorta di quadro incompiuto che doveva essere completato per acquisire un senso. Lo strumento prescelto per quel progetto erano i P.U.P. (Piani Urbanistici Paralleli). Erano detti paralleli perché affiancavano gli strumenti urbanistici vigenti e sarebbero divenuti reali solo se desiderati. I P.U.P. erano al tempo stesso strumenti di intervento territoriale, e progetti di comunicazione degli interventi stessi. In questa logica essi avrebbero utilizzato i media come possibili creatori di nuovi rincantamenti. Il progetto di ristrutturazione di Montecavolo, aveva evidenziato che, prioritaria per il paese, era la sistemazione di Piazza Matteotti e di Piazza Primo Maggio per restituire alle piazze le loro funzioni rilevanti per la vita associata. Nel PUP di Montecavolo le due piazze avrebbero rappresentato una la battaglia e l’altra il giardino della strega. Come Vladimir J. Propp, che nel suo ormai celebre testo "Morfologia della fiaba", aveva scomposto la struttura narrativa della fiaba andando man mano a frammentarla in parti sempre più piccole fino alla codifica della struttura intrinseca della stessa , avevamo ipotizzato un percorso narrativo sul paese che proponesse tra i tanti narratemi la battaglia ed il giardino. Al primo narratema si alludeva con il disegno della pavimentazione di Piazza Matteotti che riproduce una scacchiera di Alquerque. Al secondo invece era dedicato un giardino di erbe velenose. Il gioco dell'Alquerque fu introdotto in Spagna dagli Arabi, ed descritto in un “Libro dei Giochi” scritto durante il regno di Alfonso di Castiglia (1251-1282). A Gabryina, strega reggiana del XIV sec.è intitolato un giardino di piante velenose. L'orto è quadripartito in parti uguali da un pedonale a forma di croce. Dove i due vialetti pedonali si incrociano (al centro della croce) è tracciato sul pavimento un cerchio magico con la dedica “A Gabrina degli Albeti e a tutte le vittime dell’intolleranza umana”. Al centro dell’orto ogni anno avevamo progettato di erigere uno spaventapasseri commissionato ad un artista. La parte più segreta del giardino era lo spigolo Nord dove due panche ed un tavoliere della Fanorona come tavolo invitavano al gioco ed al riposo. Il gioco del Fanorona è un gioco rituale che i malgasci ritenevano dotato di proprietà divinatorie tanto che, quando i francesi attaccarono la capitale dell'isola nel 1895, l'ultima regina del Madagascar, la regina Ranavalona III e i suoi consiglieri militari avevano preferito affidare le loro mosse tattiche ai risultati di una partita di Fanorona. Se dunque l'immaginario interagisce con il reale, allora la frontiera tra reale ed immaginario è un confine sfumato e non è cosa assurda ipotizzarne il territorio, che non sarà meno reale di quello reale. Un esempio di questo territorio è la Bungelosen-Strasse di Hameln; in questa strada non si suona nessuno strumento musicale da 400 anni; di qui passarono, verso il paese della leggenda, i bambini di Hameln seguendo il pifferaio magico. Oggi, attirati dalla leggenda, arrivano ogni anno migliaia di turisti che lasciano milioni di euro nelle casse della città. Gli unici roditori visibili sono quelli delle vetrine dei pasticceri. La vera Hameln è diventata quella della leggenda. Oggi la produzione di narrazioni visive ha costruito un sistema talmente esteso e sofisticato da essere profondamente commista con quello della realtà fino a diventare omologo. Pensiamo al rapporto Miami-“Miami Vice”, il telefilm poliziesco della N.B.C., dove la vita ha finito per imitare la televisione. Un giornalista del New York Time dopo un viaggio fatto per confrontare le due Miami (quella reale e quella televisiva), era riuscito a convincere milioni di americani che esisteva una città che non si vedeva sui giornali. Una città di giovani abbronzati accanto ai soliti pensionati in cerca di sole; una città con un suo particolare e distintivo stile architettonico, ed una sensuale bellezza sub-tropicale. Alla fine se ne erano convinti anche gli abitanti di Miami, e la città aveva cominciato a cambiare come per confermare le aspettative create dallo show televisivo. E, cosa più importante, il successo della serie salvò il Deco District. Gli investitori dell’epoca infatti volevano radere al suolo le belle costruzioni degli Anni ’20, ’30 e ’40 per fare dei condomini, ma l’immagine di Miami Beach era ormai troppo legata al suo quartiere storico e questo non fu possibile.
Il Giardino delle Maleerbe di Gabrina del 1992 è stato intitolato a Gabryina degli Albetis strega reggiana il cui caso è il più famoso e documentato, tra i pochissimi di cui si ha notizia. Tutte le notizie ci vengono dal processo di eresia e stregoneria del 1375 nel quale Gabryina fu condannata al taglio della lingua e alla marchiatura a fuoco. Il processo ebbe larga eco, e il nome Gabryina, assai diffuso fino ad allora non venne più dato. La Gabryina ariostesca è una vecchia laida e malvagia «che nacque/ solo per tradir ognun che in man le cadrà». Sembra di poter riconoscere nel personaggio l'eco di qualche sinistra leggenda che Ariosto da bambino dovette aver sentito a Reggio Emilia inscindibilmente connesse con il nome della strega Gabryina, il cui ricordo dopo cento anni era certamente ancora vivo. La vegetazione dell'orto delle malerbe doveva essere costituita da: Aconito napello o napello (Aconitum napellus L.);Adonide gialla (Adonis vernalis L.);Erba del capogatto o Amanithium ammazza-mosche (Amanthium muscaetoxicum L.);Anemone nemorosa (Anemone nemorosa L.);Aquilegia (Aquilegia vulgaris L.);Aristolochia, erba atrologa o stalloggi (Aristolochia clematitis L.);Gigaro scuro o aro (Arum maculatum L.);Baccaro (Asarum europaeum L.);Belladonna (Atropa belladonna L.);Brionia o zucca matta (Bryonia cretica L.); Celidonia (Chelidonium majus L.);Colchico autunalle o freddolina (Colchium autumanale L.);Cicuta (Conium maculatum L.);Mughetto (Cavallaria majalis L.);Colombina o coridale (Corydalis cava L.);Ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius L.);Fior-stecco o mezereo (Daphne mezereum L.);Stramonio (Datura stamonium L.);Dicentra (Dicentra cuccularia L.); Dittamo o frassinella (Dictamlus albus L.);Felce maschio (Dryopteris filix-mas L.); Equiseto selavtico (Equisetum sylvaticum L.); Fusaggine, berretta da prete, corallini o fusaria (Euonymus europaeus L.);Erba cipressina (Euphorbia cypressias L.);Graziola, graziella o stancacavalli (Gratiola officinalis L.);Edera (Hedera helix L.); Elleboro nero o rosa di Natale (Helleborus niger L.); Giusquiamo nero (Hyoscymus niger L.); Ginepro sabino o sabina (Juniperus sabina L.); Maggiociondolo (Laburnum anagyroides Medic.); Loglio ubriacante o zizzania (Loliumu temùulentum L.); Caprifolio nero (Lonicera nigra L.); Lupino (Lupinus polyphillus Lindl.); Peonia selvatica (Paeonia officinalis L.);Uva di volpe (Paris quadrifolia L.); Alcheghenghi comune, alkekengi o palloncini (Physalis alkekengi L.); Sigillo di Salomone o ginocchietto (Polygonatum odoratum L.); Laurocersso (Prunus lauroceranus L.); Pado o ciliegio a grappoli (Prunus padus L.); Ranuncolo comune o ranuncolo dei prati (Ranunculus acris L.); Favagello (Ranunculus ficaria L.); Spin cervino e ramno catartico (Rhamnus cathartica L.) Ricino (Ricinus communis L.);Ruta o erba ruta (Ruta graveolens L.) Scopolia (Scopolia carniolica Jacq.); Borracina o erba pignola (Sedum acre L.);Senecione di S. Giacomo, verzola o erba chitarra (Senecio jacobea L.); Dulcamara (Solanum dulacamara L.);Tasso o albero della morte (Taxus baccata L.);50) Botton d'oro, paparia o luparia (Trollius europaeus L.); Pervinca minore (Vinca minor L.).La raccolta di erbe velenose ha senza dubbio un valore didattico per la prevenzione delle intossicazioni da piante ed insegna ai bambini a non mettere mai in bocca nessuna pianta o sua parte che non venga comunemente utilizzata per l'alimentazione.
Il Giardino dell’Arca è stato realizzato nel 1995 all'interno del Parco Diamante a Reggio Emilia. Dedicato ad Alexander Langer per l’impegno che ha profuso nel favorire il dialogo tra i diversi, oltrepassando i confini, rispettando le radici; per essere stato un “Hoffnungstranger”, un portatore di speranza Nel 2007 è stato presentato a La Biennale di Venezia 2007, 52. Esposizione Internazionale d’Arte, Spazio Thesis, nell’ambito dell’evento “Joseph Beuys. Difesa della natura. The living sculpture. Kassel 1977 – Venezia 2007” con due video dal titolo: “Zone di Terzo Paesaggio” e “Il Giardino dell’Arca”. Il simbolismo collegato all'arca (la più famosa è quella di Noé) é comune alle diverse culture e corrisponde al significato salvifico che volevamo trasmettere, o almeno rievocare. Il giardino è costituito da un piccolo spazio di forma circolare bordato da un rilievo di terra che ospita all’interno otto piante, ognuna a simbolo di diverse fedi e delle differenti comunità che in quelle si riconoscono. Il primo albero ad essere piantato è stato un albicocco portato dal Dalai Lama nella sua visita a Reggio Emilia nel 1999. Le piante, circondano un “albero” delle campane, un alto pennone da imbarcazione al quale sono state appese campane a vento. Così chiamate perché é il vento a farle suonare. Il loro battacchio porta appeso un largo timone che cattura i più piccoli refoli di vento. Il timone porta incise formule e testi poetici provenienti dall’ampio repertorio poetico sul giardino. Il loro suono ci narrerà così dei mille giardini, pensati o costruiti da quando i Sumeri raccontarono il primo Eden come luogo ideale di benessere, bellezza e pace. Alle piante gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto e: le foreste sono ciò da cui discendiamo. Hanno offerto asilo a fuorilegge, eroi, vagabondi, amanti, santi, perseguitati, reietti e agli smarriti. Tutti sono usciti a cercare riparo nelle foreste. In questo futuro, minacciato dalla scomparsa della natura e dell'uomo, il Giardino dell'Arca vuole porsi come preambolo per la propagazione, nel nostro cuore, di nuove foreste, all'ombra protettiva delle quali gli uomini possano trovare una pacifica convivenza, proprio come gli alberi in un bosco trovano armonia anche nella diversità delle specie.
Il progetto "DOUNA" del 1996 era stato realizzato nell’Azienda Nuova Agricola Riviera di Novellara secondo i dettami del regolamento C.E.E. 2078 del 30-06-1992 per creare una zona umida consegnando alle acque e alla non coltivazione alcuni poderi dell'azienda un tempo occupati da antiche paludi bonificate. Si restituiva così alle acque quello che era stato loro sottratto consentendo a migliaia di specie animali e vegetali di rioccupare gli habitat dai quali erano stati cacciati. Il ripristino vegetazionale avrebbe avuto la funzione di: offrire rifugio e risorsa per il maggior numero di specie faunistiche. Per questo avevamo scelto situazioni ed associazioni vegetali il più possibile differenziate, per consentire l'affermarsi di una diversità biologica elevata. In generale si erano proposte situazioni costituite da almeno tre livelli vegetazionali; escluse dal progetto rimanevano solo le fasce più basse, quelle delle erbe e dei muschi che risultavano essere a libera evoluzione. Dall’alto la zona umida rivelava la forma di un grande fiore che andava a completare il disegno di un lago a forma di cuore. Il lago e la zona umida erano ricchi d'acqua che durante tutto l'anno veniva prelevata dai canali di bonifica. L'esubero di acqua fuoriusciva attraverso un canale che nella forma, disegnando la parola amo, confluiva attraverso una rete di fossi nel canale "Re dei fossi bassi" Più lontano, nel sito di un vecchio ippodromo e senza cancellare gli antichi segni, avevamo realizzato nel centro una garzaia a forma di pesce, delimitando con argini la parte riservata alle acque. Le piante utilizzate erano state: Salix alba, Salix cinerea, Salix triandra, Salix purpurea,Cornus sanguinea.Alnus glutinosa, Populus nigra, Euonymus europaeus, Viburnum Pyracantha coccinea, Rhamnus cathartica, Colutea arborescens, Ligustrum vulgare e Sambucus nigra, Quercus robur, Prunus avium, Acer campestre, Euonymus europaeus, Ligustrum vulgare, Crataegus monogyna, Prunus spinosa, Rosa canina, Viburnum spp.
I Giardini della Menta di Rubiera del 2003 erano nati da un progetto sperimentale che utilizzando le opportunità derivanti dall’attività di tutela ambientale, attraverso scambi di esperienze tra soggetti di nazionalità diverse, potesse favorire l’inserimento nel mondo del lavoro. di persone appartenenti a categorie fragili. Il progetto vedeva coinvolti il Comune di Joinville comune francese dell’Alta Marna (Francia) con il restauro del giardino rinascimentale dello Chateau du Grand Jardin, ed il Comune di Rubiera, con la creazione di un “Giardino di Piante da frutto rare e perdute “nell’Ospitale di Rubiera. Questa struttura, ora sede di importanti associazioni culturali, è stato uno dei più importanti ospedali per pellegrini che sorgevano nei pressi del Secchia. In tre piccoli cortili sono stati realizzati “I giardini della menta”, giardini temporanei, nomadi, di varietà di menta rare e. sconosciute. Assomigliavano a quelli trasportati dalle carovane che si spostavano da un luogo all’altro della terra portando con sè piante in vaso come medicinali Dalle foglie e radici traevano infusi e impacchi, come da una moderna scatola del pronto soccorso. Esistono più di 600 varietà di menta, erbacea perenne rustica e vigorosa a tal punto che si incrocia spontaneamente e dà vita a sempre nuove varietà. Erba ctonia e per questa ragione legata agli Inferi è da sempre associata all’eros. A Roma la menta rotundifolia e la mentha viridis venivano intrecciate nella corona veneris che si metteva sul capo dei giovani sposi per augurare loro un buon matrimonio. E’ probabilmente un residuo di quella cerimonia, l’usanza abruzzese secondo la quale fino a qualche decennio fa i giovani sposi se ne regalavano un mazzolino per promettersi reciprocamente di non scordarsi mai l’uno dell’altro; essi donandola dicevano: “ecco la menta, se si ama di cuore non rallenta”. Assieme alla collezione di piante di menta, i tre piccoli cortili della Corte Ospitale custodivano in forma di topiaria un fantastico zoo vegetale Sculture e architetture “verdi” di bossi, tassi e carpini realizzate tramite legature e potature Assieme alle forme fantastiche dell’arte topiaria, un giardino dei semplici ed un piccolo orto botanico. Con questi giardini volevamo suscitare la sorpresa e lo stupore di una wunderkammer, la "la stanza delle meraviglie", il luogo in cui il collezionista del passato racchiudeva e custodiva le sue raccolte Avremmo dato vita al BOM- Orto Botanico delle Meraviglie che poteva svolgere la funzione di conservazione, studio e divulgazione al pubblico di specie rare od in via di estinzione. Esistono specie che sopravvivono grazie agli Orti Botanici come il Trochetia erythroxylon: albero dell’isola di S. Elena; dal 1956 sopravvive una sola pianta in natura e poche altre negli Orti Botanici locali, la Sophora toromiro: albero dell’isola di Pasqua, oggi estinta; 30 anni fa l’esploratore Thor Heyerdhal raccolse alcuni semi, fatti germinare in un Orto Botanico in Svezia e potrà quindi in futuro essere reintrodotta sull’isola. l’ Abies nebrodensis: abete dei Nebrodi, specie endemica della Sicilia dove in passato formava vaste foreste sulle montagne; attualmente rimangono solo 22 piante di cui solo 2 producono semi che vengono fatti germogliare con successo in vivaio la Ginkgo biloba: conifera originaria della Cina e Giappone, sembra che sopravviva allo stato spontaneo in qualche regione interna della Cina, ma è grazie alla coltivazione in Orti e Giardini che oggi è una diffusa ed apprezzata pianta ornamentale, sopravvive solo in alcuni Orti Botanici,il Franklinia alatamaha: alberello della famiglia delle Theaceae; nel 1803 esistevano solo da 6 a 8 piante nella Georgia; oggi sopravvive qualche individuo negli Orti Botanici.
Il PAB Parco Culturale dell’Ariosto e del Boiardo del 2007 è stato un progetto voluto dalla Provincia di Reggio Emilia, in collaborazione con i Comuni di Reggio Emilia, Scandiano, Canossa e Albinea Il Parco letterario o culturale è allo stesso tempo uno spazio fisico e mentale: al territorio come si presenta ai nostri occhi, si sovrappone infatti uno spazio emozionale analogo a quello in cui si trovarono i vari autori quando scrissero le loro opere. Il Parco rivolge idealmente le sue proposte ad un pubblico di lettori-viaggiatori, a cui far conoscere il territorio attraverso una lettura differente, interdisciplinare, attenta all’ambiente, alla storia, alla geografia, alle tradizioni animati dal filo conduttore della fonte letteraria. ll PAB è ispirato all’opera de L’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo nato a Scandiano nel 1440 e de L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto nato a Reggio Emilia l'8 settembre del 1474. Un Parco ideale e al contempo concreto, materiale, fattuale, per interconnettere i luoghi della provincia reggiana che vantano legami con la vita e l’opera dei due autori dell’Orlando innamorato e dell’Orlando furioso, riunendoli virtualmente in un unico ampio spazio mentale. Così che quel genius loci di cui ancora la fisicità dei luoghi è impregnata possa rianimarsi e trovare vigore. Ci sono luoghi in questa terra, dimora di spiriti inquieti e bizzarri che sussurrano storie meravigliose, popolate da personaggi sospesi sul filo sottile che divide la realtà dalla leggenda, il quotidiano dal fantastico.
Nel 2007 a Reggio Emilia, all’interno del verde comunale, ispirate all’ idea di Terzo Paesaggio di Gilles Clément, sono state destinare delle zone all’evoluzione spontanea della vegetazione evitando totalmente gli interventi manutentivi. Queste aree, con carattere di sperimentazione, chiamate “Giardini del Vento” sono state segnalate con adeguata cartellonistica e delimitazione. Volevo sottolineare come il concetto di paesaggio nasca come strumento di controllo e corrisponda ad una selezione strumentale degli elementi del territorio (gruppi sociali ed economici, forme naturali ed antropiche,) in funzione di un modello dominante. Di contro il Terzo Paesaggio lascia spazio all’indecisione, all’entropia, all’assenza di regolamentazione sociale, politica e morale perché modello, non esclusivo ma aperto, che esalta il meticciamento planetario vera origine della ricchezza del creato. I Giardini del Vento sono stati presentati alla Biennale di Venezia 2007,Beuys Joseph , Difesa della Natura The living sculpture. Kassel 1977-Venezia 2007curata da Lucrezia De Domizio Durini.
Ai Giardini Baltimora di Genova nel 2010 avevo progettato l’Hortus Spiritus, immaginando il giardino come agorà nella società multirazziale, progetto etico ed estetico del bel luogo, spazio bello e buono, della tolleranza carico dell’antichissimo significato vitale di Kepos, senza il quale non è concepibile la vita umana e animale. All’interno di questa visione l’Hortuspiritus di Genova era stato pensato come una sorta di macchina ecumenica per meditare o pregare. D’aspetto era a metà tra una pergola di un terrazzamento ed un trabucco l’antica macchina da pesca diffusa nel basso Adriatico. La nostra macchina per pescatori d’anime era costituita invece da una scala in legno grezzo che si arrampicava lungo la fascia sotto gli antichi lavatoi ed era contornata da due file di piante. Quelle scelte dalle comunità religiose di Genova. Tese tra i traversi ed i ritti il progetto prevedeva di collocare delle corde affinchè il vento le faccesse vibrare. Tutto l’Hortuspiritus sarebbe così diventato uno strumento musicale di preghiera. La scala è un simbolo che rappresenta il collegamento fra cielo e terra, e fra morti e vivi, la comunicazione tra Dio e l’uomo, la possibilità di ascendere al cielo. Nel Genesi è detto che il luogo ove Giacobbe sognò la scala da cui salivano e scendevano gli angeli venne chiamato Beith-El (Casa di Dio); le tradizioni ebraiche ricordano che nelle vicinanze si ergeva un mandorlo, presso era occultato l’accesso ad una città sotterranea in cui, come ricorda Guénon, «L’Angelo della Morte non può penetrare»., All’interno dell’ Hortuspiritus era prevista la presenza di un Distributore di “ semi delle piante sacre” con il compito di trasformare i fruitori in propagatori di foreste.
All’interno del parco della Romanina nel 2018 e realizzato dal Servizio Giardini di Roma in un campo di papaveri si staglia un piccolo bosco circolare percorso da un sentiero a spirale che conduce al centro. Sono 27 querce dedicate ognuno ad un magistrato caduto nell’adempimento del proprio dovere a formare il Giardino della Giustizia Dedicare un albero, un bosco a questi uomini che anteposero il bene comune alla loro salvezza, ha un che di sacrale e ci riporta indietro nel tempo quando a Roma I boschi consacrati a una divinità si dicevano luci ed erano protetti da severe leggi che comminavano persino la pena capitale a chi osasse deturparli. Famoso era il Bosco degli Arvali, i sacerdoti della Dea Dia, una divinità arcaica protettrice della terra e delle messi. La quercia figurava quale albero di Zeus, e a Dodona il primo tempio consisteva proprio in una foresta di querce, a testimoniare la sacralità del bosco. Presso i Celti ed i Germani,le decisioni più importanti venivano prese all'ombra della quercia, albero della Saggezza e della Giustizia. Il papavero comune , papaver rhoeas, è una pianta erbacea annuale, largamente diffusa in Italia, in campi e sui bordi di strade e ferrovie. Secondo gli antichi greci era il simbolo dell’oblio e del sonno e nella mitologia greca Morfeo, il dio dei sogni, era rappresentato con un mazzo di papaveri fra le mani. Gli antichi romani invece associarono il papavero alla dea Cerere, raffigurandola con ghirlande di papaveri, per la presenza costante di papaveri in tutti i campi di grano. Durante il medioevo il papavero fu invece associato, per via del suo colore, al sacrificio di Cristo e alla sua morte, per questa ragione si trova spesso raffigurato in affreschi di chiese risalenti all’epoca medievale. Secondo una leggenda, l’imperatore mongolo Gengis Khan teneva in tasca semi di papavero che spargeva sui campi di battaglia per onorare i caduti, anche quelli avversari. Sulla scia della tradizione medievale, che associa il papavero al sacrificio, nel Regno Unito, durante la prima guerra mondiale, per celebrare gli uomini morti per la patria si usavano ghirlande composta da papaveri e l’uso permane fino ai nostri giorni nei paesi anglosassoni. Non possiamo neppure dimenticare Fabrizio De Andrè e la sua ‘Canzone di Piero’: “Dormi sepolto in un campo di grano/non è la rosa non è il tulipano/che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ma sono mille papaveri rossi…”
ll Giardino dei Giusti di Roma realizzato dal Servizio Giardini di Roma ed inaugurato il 6 marzo 2018 si situa. tra i dolci declivi di villa Doria Pamphili in una parte pianeggiante che racchiusa da un lato da un piccolo corso d’acqua e dall’altro da un viottolo, si stende un campo di grano fino a mischiarsi a due filari d’ulivi. Gli ulivi cingono una siepe di melograni. Sono a corona di un piccolo rilevato in terra che invita alla sosta. Il sentiero che si inoltra tra le spighe del grano, e taglia la curva disegnata dal filare degli ulivi completa il geoglifo che allude alla forma di un calice di un fiore. Come quella dei fiori del croco, di cui l’area del giardino è disseminata e che annunciano la primavera Gli ulivi raccolgono in un abbraccio un boschetto di cipressi. I cipressi sono racchiusi in una incastellatura di alti tutori che sembrano donare all’impianto una dimensione solenne. L’impianto ha le misure del tempio di Salomone che sono descritte in 1Re 6,2: "60 cubiti di lunghezza, 20 di larghezza, 30 cubiti di altezza", cioè circa 30x10x15 metri. Ogni anno a primavera saranno messi a dimora nel Giardino dei Giusti alcuni ulivi, ognuno a ricordo di quegli uomini che scelsero il bene. Il calice floreale rimanda alla coppa ed al brindisi, l’atto di bere alla salute di qualcuno ma anche alla figura di una Menorah, il candelabro a sette braccia. Dopo la "stella di Davide", la figura a sei punte, è il più noto simbolo ebraico La sua descrizione nel libro dell’Esodo (25: 31-36) è formata quasi completamente da termini botanici: rami, calici, petali e coppe. Antiche fonti ebraiche, come il Talmùd babilonese, stabiliscono uno stretto rapporto tra la Menorah e un tipo di salvia, chiamata in ebraico Morià. E’ una pianta nativa di Erez Israel che ha una notevole somiglianza con la Menorah, anche se non è sempre a sette braccia. Il gran sacerdote aveva l’ordine di tenere la Menorah nel Santuario piena di puro olio di oliva e di accenderla ogni giorno (Esodo 27:30). L’albero di olivo era stato un simbolo di luce già nella storia dell’arca di Noè quando la colomba tornò indietro con una foglia di olivo nel becco (Genesi 8:11). La Menorah e l’albero di olivo come simboli di pace sono presenti anche nella visione del profeta Zaccaria. A villa Doria Panphili nel blasone della famiglia compare una colomba che reca nel becco un rametto di ulivo. La colomba era simbolo di Venere, dea dell’amore e madre di Enea, il mitico fondatore di Roma e protagonista degli affreschi nella Galleria Doria Pamphilj. Altra pianta presente nel giardino è il melograno. Per gli ebrei è un simbolo di fertilità, ed anche dell’unità del popolo, poiché i grani sono stretti tra loro. La pianta richiede pochissima acqua e cresce su ogni tipo di terreno, quasi a costituire una specie di miracolo e di dono della natura in terre aride e brulle Inoltre, il melograno nella tradizione ebraica è simbolo di onestà e correttezza, dato che il suo frutto conterrebbe 613 semi, che come altrettante perle sono le 613 prescrizioni scritte nella Legge (Torah): 365 divieti e 248 obblighi, osservando i quali si ha un comportamento giusto. Il numero dei semi della melagrana è variabile ma si aggira comunque intorno alle 600 unità. Altro albero del Giardino è il cipresso pianta comune in tutta la Palestina. Ne sono stati trovati alcuni esemplari selvatici in Galaad, Edom e sulle pendici del Libano. Secondo alcuni è l’“albero resinoso” che fornì a Noè il legname per l’arca Ge 6:14.In Isaia 41:19 Geova promette di far crescere anche in zone desertiche alberi che normalmente crescono in luoghi fertili, e in una profezia concernente la futura esaltazione e prosperità di Sion è predetto che il cipresso, insieme al frassino e al ginepro, sarebbe stato usato per abbellire il luogo del santuario di Geova. Isa 60:13. Il cipresso ha avuto fin dall'antichità un significato sacro, legato ai riti funebri ed alla morte. Il nome, infatti, deriva dalla triste leggenda del giovane Ciparisso, che per sbaglio uccise un cerbiatto che aveva allevato amorosamente. Per il dolore si tolse la vita e Apollo, commosso per la triste fine, lo trasformò nell'albero che oggi tutti conosciamo, diventato da allora il simbolo del lutto e dell’accesso all’eternità
L’ Hortus Inconclusus è ’ stata una installazione realizzata per Euroflora ai parchi di Nervi dal Servizio Giardini di Roma Capitale e dedicata a Roma attraverso la figura di Athanasius Kircher. Il disegno delle aiuole avrebbe potuto evocare quello di un volto umano ma anche altro. Era un omaggio alla Roma meno conosciuta, dove crescono piccole piante nel mitreo interrato dieci metri sotto la basilica di San Clemente; Roma della porta alchemica del marchese di Palombara che non conduce più da nessuna parte ma, può essere attraversata solo da “Qui scit comburere acqua et lavare igne, facit de terra caelum et de caelo terram pretiosam"; Roma della chiesa del Sacro Cuore del Suffragio che custodisce il Museo delle anime del Purgatorio, Roma del Museo kircheriano, ospitato nel Collegio Romano. Athanasius Kircher è stato un erudito gesuita (1602 - 1680) ed eminente rappresentante dell'enciclopedismo seicentesco. : I suoi eclettici interessi spaziarono dal campo degli studi linguistici alla geologia, dalla filologia all'ottica, al collezionismo di antichità; le sue ricche raccolte di reperti costituirono il fondo museale noto come Museo kircheriano e ospitato nel Collegio Romano. Nel museo, erano conservate anche le famose macchine ottiche e catottriche fatte costruire dallo stesso Kircher. per scopi di diletto, meraviglia e studio. Kircher pensava si potessero progettare giardini in cui alberi e piante, visti da un punto determinato, prendessero la forma di animali e sembrassero dipinti in un quadro; ed anche le città avrebbero potuto essere costruite in modo da apparire figure animate. Perfino le montagne e le rocce potevano essere trasformate in creature viventi. I giardini con i loro alberi ed i loro fiori disposti secondo disegni regolari, dove la natura veniva imbrigliata in una rete di prospettive calcolate per offrire naturalmente a queste fantasie e a questi artifici un buon campo di applicazione. Del resto, lo stesso Descartes aveva scritto: “Si possono fare in un giardino delle ombre che riproducono figure diverse, come alberi ed altre cose. Item, potare le siepi in modo che da particolari prospettive esse assumano la forma di particolari figure”. Al continuo ed ansioso riprodursi di fughe della mente, dei sensi e delle passioni, il seicento barocco come la contemporaneità dà una risposta: l’artificio. Ricondotto agli stati di coscienza, l’artificio non è altro che una maschera. Le verità metafisiche sono le verità delle maschere (O. Wilde). Sono anche le verità delle favole.
Il Campovolo è il nome dell’allestimento floreale realizzato dal Servizio Giardini di Roma Capitale che avevamo approntato a Maggio in Fiore, nel Comune di Cervia ed era dedicato a Roma attraverso il Parco Archeologico di Centocelle. Lì sono ancora visibili i segni del primo aeroporto italiano, entrato ufficialmente in funzione il 15 aprile 1909 quando Wilbur Wright venne a dare una serie di dimostrazioni del Flyer. Nello stesso modo l’istallazione alludeva ai voli delle piante in balìa dei venti. Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili e il caso organizza i dettagli. Nell’allestimento, avevamo strallato alcuni alberi presenti nell’aiuola che ci era stata assegnata per trasformarli in una grande arpa eolia, uno strumento musicale nel quale le corde vengono fatte vibrare dal vento. Fra le alberature erano tesi anche cavi che sorreggevano giardini di Buddleja Davidii e pure reti per catturare i semi delle angiosperme anemocore, che hanno frutti o semi leggeri, muniti di ali. Dai rami pendevano palle di sfagno con esemplari di sanseverie che avevano le forme del nido dell’uccello sarto o l’aspetto della bernocla, la mitica anatra vegetale L’aiuola a terra ospitava piante di cipresso piegate dal vento o dalla forza tellurica di piante vagabonde ritagliandosi uno spazio fra infestanti, come la panace di Mantegazzi, la porracchia sudamericana, il fico d’India, il papavero sonnifero, il poligono del Giappone, l’erba della Pampa Facevano da corolla ad esemplari di rampicanti animati da un anomalo tigmotropismo e troneggiavano fra piante che amano il vento. Piante abituate geneticamente e morfologicamente allo schiaffo del vento. Erano graminacee, alternate da erbacee perenni e coloravano le aiuole con tinte contrastanti Erano il veronicastrum virginicum, l’echinacea purpurea, la sanguisorba officinalis, il thalictrum delavayi, la catananche caerulea, l’eringyum amethystinum, la verbena officinalis, la stipa tenuissima, la calamagrostis acutiflora , la festuca arundinacea, il pevinisetum alopecuroides, il miscanthus sinensis La loro collocazione dava un’idea di casualità consegnando l’idea di ”giardino in movimento”, uno spazio in cui la natura non era assoggettata e soffocata dalle briglie di un progetto
21 A Roma nel 2018 in viale Baccelli avevamo realizzato con il Servizio Giardini di Roma un Giardino per una sola rosa dedicandolo a Saint Exupery. Da lì si godeva una vista bellissima delle Terme in compagnia di una sola rosa Il nome della rosa era Saint Exupery " Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale e' invisibile agli occhi". "E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa cosi' importante". Antoine De Saint-Exupery Il Piccolo Principe Con questo ultimo giardino concludo il mio viaggio ma continuerò a seminare e piantare alberi che qualcun altro, se non io, vedrà fiorire per scoprire nella grazia di ogni vita la sola possibile felicità
Sono molti giardini al tramonto.
Il sudario grigio e rosa li ricopre e
pochi sono coloro che ne ascoltano il canto
F. Garcia Lorca